giovedì 13 novembre 2008

Roberto Rossi Testa

Appunti per una presentazione di Guida pratica all'eternità (racconti) di Fabrizio Centofanti

di Roberto Rossi Testa

Non entro in questa sede in dettagliate considerazioni numerologiche, tanto più facili e consuete per la poesia ma possibili anche per la prosa, pensiamo soltanto agli sterminati studi di Ivan Panin sulla Bibbia.

Mi limito a osservare che i racconti di questo libro sono 19 (12 + 7) , ai quali l'autore sente il bisogno di aggiungere tre “quadretti” pubblicati sul blog letterario Nazione Indiana, completando così il numero degli arcani maggiori, forse in omaggio a Calvino, di cui è studioso e su cui ha anche scritto un bel libro. Inoltre i 19 racconti sono partizionabili anche in 3 + 16, dove i primi 3 alludono direttamente alla sua persona e all'inizio della sua missione, a mo' di prolegomeni, mentre gli altri 16 sono spaccati d'esistenza del suo ministero pastorale.
Nel primo racconto, L'editore, omaggio esplicito al suo Calvino, l'autore appunto si sdoppia nella figura di un editore. Editore e non autore, a sottolineare ciò che i racconti seguenti saranno: reperti, regesti d'incontri, ai quali egli presta la sua opera affinché possano diffondersi, ma che in certo qual modo e misura trova già come fatti e formati.
Nel secondo racconto, Scacchiere, l'omaggio ancor più esplicito e personale è a Rebora, il secondo suo autore che completa il suo curriculum (almeno quello ufficiale) prima della vocazione religiosa. In esso si parla della ricerca della libertà, ma non certo nel senso della libertà di fare ciò che gratifica, bensì del processo di liberazione dalle lusinghe, della vittoria su di esse, al fine di dare scacco matto all'Avversario. È chiaro che se l'autore pone in limine con tanta forza la questione dell'identificazione è perché dentro di lui, lo dico non come accusa ma con partecipe affetto, la battaglia è lungi dall'essere vinta: la vittoria si può conseguire solo vivendo, e vivendo con scialo di se stessi.

Come si dirà nel terzo racconto, integrare i vari momenti della propria esistenza, le proprie parti in contrasto, è cosa che richiede tempi eterni, dal momento che si affrontano traumi la cui guarigione richiede nientedimeno che l'eternità.

Di passaggio si nota che nei suoi racconti l'autore, esattamente come Dante e come ogni altro autore che usa se stesso come personaggio, è lui e non è lui al tempo stesso, e forse è meno lui dove e quanto più sembri essere proprio lui. Questa regola ha poche eccezioni, un esempio delle quali potrebbe essere il libro “L'incoronazione” di Sergio Quinzio, ma qui il discorso si farebbe delicatissimo, aleatorio e porterebbe troppo lontano. Diciamo solo che qui sta il discrimine fra chi fa “e” intende fare letteratura e chi fa “o” intende fare qualchecos'altro.
Nel terzo racconto, Dialoghi fra la terra e il cielo, l'idea di fondo è il prezzo che si paga per (tentare di) essere di giovamento agli altri. Chi veramente giova agli altri non può giovare a se stesso, anzi almeno dal punto di vista del mondo prepara la propria rovina. Non si sceglie di avere certi doni, si può al massimo e solo in parte scegliere se e come usarli. Dal momento di tale scelta la vita è segnata, e come si diceva all'inizio da questo punto si passa senz'altro alla seconda parte dell'itinerario esistenziale dell'autore e/o del suo personaggio.
Nel quarto racconto, Il gioco dell'impiccato, il problema posto al centro è quello dell'identificazione, del rispecchiamento. Il vivo si specchia nel morto, un morto appeso e pensoso, altro oggettivo omaggio alle figure dei tarocchi e quindi forse a Calvino. Ciò che alla fine distingue il vivo dal morto è la tazzina di caffè che un sacerdote porge al vivo. Questo sacerdote fuori campo, di cui in campo entra solo una mano, e forse un pezzo di braccio, è dunque il motore dell'azione o almeno sua causa materiale, come accade nei quadri dove il pittore si rappresenta piccolo e modesto in un discreto angolo del quadro. La riconoscibilità comunque è assicurata da un elemento infimo e triviale soltanto ad una considerazione poco attenta. Si tratta infatti dell'odore, e l'odore è ciò che più ci rappresenta e caratterizza. L'odore ci annuncia prima del nostro arrivo e anche quando ce ne andiamo lasciamo tracce persistenti di calore e odore. Ma mentre il calore lo registrano solo certi animali e certe moderne apparecchiature, l'odore lo sentono e magari lo riconoscono persino i nasi più civilizzati. Elemento dunque anche imbarazzante di fisicità, quella fisicità che nel diciottesimo racconto verrà collegata direttamente alla pienezza della persona umana ed all'adempimento del suo destino.

Nel quinto racconto, Canonica paradiso, il cui titolo fa il verso a un film famoso, anche a testimonianza dell'amore dell'autore per il cinema, che bene risalterà in particolare nell'ottavo racconto, siamo ormai inoltrati nel tunnel, dal barbone al drogato. E dallo sfondo pian piano vengono alla ribalta le “tonache nere”, dal prete bruciato all'italianista mancato (e quindi metaforicamente bruciato anche lui), non fosse che per il fatto che “non c'è nessuno che si faccia infinocchiare come loro” (ecco la debolezza che si rovescia in forza, la stoltezza che si muta in saggezza). I Giusti della tradizione chassidica e sufi sono così interpretati: “Se gli infelici della terra non si uniscono per far saltare il pianeta è perché qualcuno si fa infinocchiare tutti i giorni senza lamentarsi”; dove, da parte del personaggio che pronuncia tale battuta, non si sa se siano maggiori l'irrisione e il rimprovero o una magari inconscia ammirazione.
Nel sesto racconto, Mani, si intravede per fotogrammi staccati ciò che ha fatto diventare una ancora generica vocazione una speranza adulta, una sfida in cui Dio è assecondato con dedizione piena ma anche continuamente richiesto di pronunciarsi in modo esplicito. L'inizio vero di questo cammino è nel momento in cui i piedi non poggiano più su terreno solido, la strada si è trasformata in altro, ma il camminatore non s'impressiona né tantomeno si ferma o torna indietro. Nell'incontro con un fratello e padre spirituale, nelle volute dei fumo della sigaretta che questi tiene in mano, il camminante trova i migliori motivi per fermarsi un istante e poi riprendere il cammino: trova tutti i motivi, per sé e per il mondo, del quale quel fumo nel suo flottare sembra contenere e reggere tutto il bene e tutto il male. Quel fumo è anche prefigurazione delle fiamme che avvolgeranno la sua guida spirituale e che lambiranno anche lui, passandogli il testimone di una prova che non finisce se non con la vita stessa. Ed il discepolo dimostra di aver tutti i numeri per poterla superare perché, pur nell'amore immenso che lo anima, non rinuncia a chiamar le cose con il loro nome, definendo “assassino” l'infelice incendiario. La confusione delle cose e dei fatti parte dalla confusione dei nomi e delle parole, che porta inevitabilmente alla confusione dei concetti che descrivono le cose e narrano i fatti. Solo riportando ordine nell'espressione potremo sperare di riportare ordine, se non proprio nel mondo, almeno nelle coscienze.

Il settimo e ottavo racconto, Agatino e Come un film, sono legati dal filo conduttore del cinema, come già detto una delle passioni culturali dell'autore: il protagonista del primo è un personaggio da film, con quella sua tenuta che ricorda quelle dei personaggi del Far West, il secondo nel cinema addirittura ci lavora, fino al dramma che sconvolge la sua vita. Entrambi sono dei drop out per i quali l'unico lieto fine possibile è quello che si prolunga oltre l'esistenza terrena, anticipato però dai gesti d'amore di don Mario, il maestro dell'autore, che dimostra ai due la sua costante attenzione e, nei momenti cruciali, “pre”dilezione, malgrado il loro modo di porsi, che nel primo sembra solo espressione del suo “essere fuori”, mentre nel secondo si sostanzia in sfide che sono poi delle richieste d'aiuto: quelle richieste che solo pochissimi sanno e vogliono capire e soddisfare.
Leggendo il nono racconto, Messaggi, non si può fare a meno di pensare alla miracolosa liberazione dal carcere di Pietro, anche se qui non di liberazione si tratta ma dell'insperato successo del tentativo del protagonista di mettersi in comunicazione con i familiari, mentre le fauci della prigione si stanno chiudendo su di lui in un modo che viene insistentemente presentato come diabolico; e certo questo episodio non pare meno miracoloso di quello narrato nel capitolo 12 degli Atti degli Apostoli.
Nel decimo racconto, Pugili allo specchio, c'è la lotta contro la droga per Filippo, contro la birra per il (futuro?) sacerdote. Certo, non ogni combattimento è buon combattimento in senso cristiano, ma almeno chi combatte non sarà vomitato come tiepido. Siamo ancora di fronte a una storia di (auto)riconoscimento, che non può (più) avvenire se non rispecchiandosi, come già nei precedenti testi la comunicazione si avvia soltanto sentendo empaticamente la vita e i movimenti dell'altro. Ciò che fin qui emerge è il problema della (auto)conoscenza, che non può verificarsi che mediante “l'altro conoscere”: conoscere Dio negli altri, gli altri in Dio. Due strade diverse per un processo che finisce per essere il medesimo, l'unico per il quale si può arrivare a conoscere (anche) se stessi. Nel rispecchiamento ci si conosce non solo attraverso quello che l'altro ci rimanda, ma andando oltre la superficie dello specchio, addentrandoci come in un'altra realtà che finiamo per conoscere come la pienezza della nostra, cosicché dalla conoscenza può nascere anche la riconoscenza .

Nell'undicesimo racconto, Antonio, ci sono delle interessanti suggestioni, più, che affermazioni esplicite, su che cosa sia e che cosa comporti un miracolo; a riprova, fra l'altro, di come la cultura dei libri, la meditazione e l'esperienza anche estrema del quotidiano nell'autore si fecondino e irrobusticano a vicenda in un crescendo continuo. Dunque: miracolo come evento raro ma naturale (naturale ma raro, e che per di più accade proprio al momento opportuno, come recita un midrash) o come irruzione di mirum e tremendum, non tanto da invocare, ma dal quale più che altro guardarsi? In questo racconto abbiamo un miracolo che prende alla gola a tradimento e sembra (dico sembra) chiedere un tributo di sangue; in mancanza del quale il miracolo letteralmente si sgonfia e va, sempre letteralmente, “a spaventare qualcon altro”. Oltre al tributo di sangue, ciò che davvero sembra propiziare il miracolo è u atto gratuito compiuto in spregio alla ragionevolezza, al calcolo delle probabilità; dopo di che il miracolo si verifica, certo non subito, ma dopo, e vivere nell'orizzonte del miracolo è vivere nella logica del “post hoc, propter hoc”, laddove sempre più spesso l'invocazione della casualità si svela come misera e miserabile superstizione scientista.
Nel dodicesimo racconto, La bestemmia soffocata, c'è Tito con la sua agorafobia, un uomo che disdegna i contatti con gli uomini perché li soffre e con le cose perché se ne sente legato, e cerca la leggerezza nel vuoto. Alla fine si capisce che sua non era che attesa, paura di mancare il solo appuntamento che contava, cosa che lo rendeva in fondo uguale a chi, per lo stesso scrupolo, faceva una vita in apparenza tanto diversa da lui.

Il baricentro del libro è nel Come stai? di don Mario, il prete bruciato, interrogativo non retorico che dà il titolo al tredicesimo racconto. È un “Come stai?” rivolto ai disperati che in qualche modo siamo tutti, un “Come stai?” che non chiede la risposta stereotipata “Bene, grazie, e tu? ”, ma si accontenta di sollevare il coperchio del vaso di Pandora dei guai altrui lasciando che il gran vento che se ne alza possa infine trovare sfogo e solo dopo di questo giustamente placarsi.

Nel quattordicesimo racconto, Vulcani, si assiste alla fine di un eroe sbagliato, che mi ha richiamato alla memoria quella del fratello aviatore della poesia di Brecht, per il difetto d'amore e comprensione che sottende, difetto che inesorabilmente riemerge e colpisce. Si può usare dell'energia del vulcano ma occorre sapere che esige sacrifici, se non in vita in morte, sempre che si sappia cogliere in tempo la differenza sottile.

Nel quindicesimo racconto, Pastorale, viene celebrata la potenza primigenia e tellurica del “vaffanculo”, espressione che molte volte e comunque in questo caso significa: “Ma ti rendi conto di quello che dici e di quello che fai? Ritorna in te, torna con noi!”, espressione dunque forte e severa di riprensione fraterna, che ovviamente non esclude il perdono per quella fondamentale ignoranza ma fissa dei paletti e mette in mora (condizioni che peraltro non aspettano che di farsi travolgere dall'amore). Questa espressione sboccata ma spesso ampiamente giustificabile è l'esatto contrario dell'imperversante “Fatti i cazzi tuoi” che, facendo le viste di celebrare l'onnipotenza degli individui, in realtà li confina nei loro deliri: negando persino l'esistenza di quelli comuni e facendosi “i cazzi suoi”, ognuno in realtà è murato in sé stesso, con l'unica compagnia dei propri demoni.

Al precedente si collega in modo stretto e diretto il sedicesimo racconto, Polvere, in cui si mostra come il cattivo carattere e le separatezze, forse più che differenze, vengano livellati dalla consapevolezza se non dall'accettazione del destino comune.

Nel diciassettesimo racconto, Lettera di Natale (a un amico malato di SLA), scrivendo a quest'amico che ha dentro e intorno a sé la difficoltà e la fragilità e di fronte la prospettiva della fine in modo certo più netto e deciso di quanto non accada alla generalità delle persone, l'autore dispiega i rassicuranti luoghi comuni dell'esistenza: il papà ha una mano forte che guida, la mamma è sempre pronta a difenderti; anche se a volte le cose vanno diversamente, nel ricordo almeno dovrebbero sempre essere così, l'ossequio all'archetipo è un'importante fonte di equilibrio. Ma anche al riparo dell'archetipo c'è qualcosa che sfugge, qualcosa che inquieta e spaventa come il Belfagor televisivo che spaventò i bambini della generazione di Centofanti , che è anche la mia. Ebbene, per questi conti che non tornano e inquietudini e spaventi non ci sono risposte né rimedi né conforti. C'è soltanto la speranza che nell'evidenza della circolarità cattiva dell'esperienza umana si manifesti all'improvviso uno squarcio da cui possa irrompere il Regno.

Il diciottesimo racconto, Levate la pietra, il cui titolo si riferisce all'episodio della resurrezione di Lazzaro ma che fa anche venire alla mente l'opposto ed analogo “Aprite la porta” di “Assassinio nella cattedrale”, è come una riflessione drammatizzata sul corpo mistico. Il sacerdote, superato il trampolino della sacrestia, non è più solo lui, pronuncia parole che gli vengono dettate, e lo stesso avviene al popolo cristiano quando prega e canta all'unisono. Ma, al contempo, nei giorni freddi la chiesa va riscaldata, altrimenti qualcuno potrebbe ammalarsi. Ci viene così ricordato che non siamo solamente spirito, che persino nella morte il distacco dal corpo (misero corpo, ma prefigurazione di quello glorioso), non è definitivo bensì provvisorio, nell'attesa della pienezza e della resurrezione.

Il diciannovesimo e ultimo racconto, 21 dicembre 2012, parla non della fine del mondo, sulla quale per il credente non sono possibili congetture e previsioni, ma della fine di questo nostro mondo presente. Fine alla quale il protagonista, con cui l'autore sembra ancor più che in altri casi confondersi, prega di non sopravvivere, qualora in essa la parte migliore del suo essere dovesse soccombere. Ora, a tale parte si possono dare nomi diversi, appartenenti tutti alla contingente storia individuale, però il suo nome vero è sempre “Amore”.

Così terminato, il libro si riapre per una breve appendice, per una terna di aggiunte, di chiose.

Nella prima, Una cosa ridicola, lo scrittore pare reclamare i propri diritti: anche le cose peggiori viste sotto una certa luce appaiono se non buone almeno sorprendenti, quasi delle perle barocche. Così la porta sfondata della canonica svaligiata diventa “un saluto un po' troppo entusiasta, un abbraccio esagerato”, dove tutto rimanda però, a filo di paradosso, al suo ubi consistam di testimonianza e di fede.
Ma il vero saluto e la vera cosa ridicola sono lo strano saluto del sagrestano disabile (“diversamente abile” dice l'autore), “Eccolo, va'!” al prete che si accinge a dire Messa, e che solo da ultimo si rivelano essere il saluto di Dio: cosa ridicola dunque, cosa da nulla, e infinitamente preziosa.

La seconda aggiunta, La forma perfetta, dibatte la questione della forma e del contenuto con accenti emotivi e polemici, ai limiti della ribellione: “Celebrare. L'idea sarebbe quella del silenzio”, “La forma perfetta è la faccia dei poveri”, fino alla domanda quasi gridata: “Che c'entra un prete con metrica, retorica e stilistica?”. Ma l'autore in tutte le sue determinazioni umane sa bene che con quelle cose un prete c'entra moltissimo. Perché un prete, come si potrebbe dire oggi, è (anche) un “operatore liturgico”, e la liturgia è ciò che opera la trasformazione, per usare il linguaggio quotidiano, delle forme in sostanza, in quella sostanza attinta la quale non ci sarà più ritardo né attesa, essendo ogni cosa pervenuta al suo tempo, luogo e modo di manifestazione appropriato.

Con la terza aggiunta, Il canto del gallo, il libro finisce veramente, ma con un topos classico, appunto quello del canto del gallo, che in realtà lo riaffaccia a infinite aperture e sorprese. Da pressanti domande sulla natura della vocazione e sulla comunicabilità dell'esperienza interiore scaturisce l'intuizione che la chiamata non è altro che la scoperta della reale esistenza del mondo, nel quale, e lo si capisce bene quando si avverte e si segue il flusso dello spirito, tutto è grazia. E sulle parole dell'umile e altissimo curato di Bernanos l'autore e il lettore fanno il gesto di prendere reciproco congedo, ma entrambi sanno che al gesto non farà seguito l'atto.

Per terminare, una confessione personale. Mi ero ripromesso, dovendo parlare del lavoro letterario di don Centofanti, di limitarmi strettamente alla letteratura, alla letterarietà dell'opera. Strada facendo mi sono reso conto che non era possibile, anzi, che non “mi” era possibile. In difesa degli interessi dell'arte, della sua pretesa purezza, ho sempre avuto un'intransigente diffidenza verso gli autori che affrontavano i problemi sociali o addirittura le tragedie collettive del loro presente; e parlo di autori fra i più grandi. Ma la conoscenza prima, e poi il rapporto quotidiano con don Centofanti mi hanno impedito di mantenere più a lungo il mio vecchio atteggiamento. Ho dovuto constatare l'assoluta sincerità e abnegazione del suo lavoro sociale e pastorale, l'esatto contrario di un mero investimento per racimolare agganci e fama; ed ho soprattutto dovuto riconoscere che tale pratica non indeboliva né sviliva la sua arte, ma la fortificava fornendole un orientamento costante, indipendente dagli alti e bassi dell'io e dell'esistenza quotidiana. Insomma, devo confessare che il contatto con quest'uomo, questo sacerdote, questo scrittore, mi ha molto cambiato, come penso che possa cambiare almeno qualcuno di voi.

martedì 2 settembre 2008

Alessandro Zaccuri

Di solito sono gli altri, i non consacrati, a tenere il diario dei
preti: l'indimenticabile Bernanos, il dimenticato Lisi, il sempre
riscoperto Bruce Marshall. Questa volta, però, Fabrizio Centofanti – sacerdote della diocesi di Roma – ha deciso di provvedere direttamente. La sua Guida pratica all'eternità, che di fatto costituisce un esordio narrativo, è un journal come se ne possono scrivere oggi: frammentario, allusivo, alla continua ricerca di un punto di equilibrio e consistenza che, prima
ancora di essere enunciato con chiarezza, viene percepito dal lettore
quale dimensione interiore, sguardo, attesa. Succede così nella parte
centrale del libro, occupata dai ritratti dei tanti sbandati che, per
vie diverse, intrecciano la loro storia con quella di don Mario, il
parroco impegnato sul fronte della droga e dell'emarginazione al
quale, una notte, vengono appiccate le fiamme. Il 'prete bruciato' è
la manifestazione più visibile di quel principio di unità e di
coerenza che Centofanti delinea con maggior precisione, ma senza
rinunciare alle sfumature di una scrittura mai perentoria, nei
'quadretti' in cui descrive la vita quotidiana di un sacerdote di
oggi.
Originariamente apparsi in rete su 'Nazione Indiana', questi ultimi
testi rappresentano fra l'altro una testimonianza del lavoro che lo
stesso Centofanti svolge attraverso il blog collettivo 'La poesia e lo
spirito' (http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/), punto di riferimento sui temi legati al dialogo fra letteratura e spiritualità.
Un impegno che nasce da lontano, come suggerisce un altro dei
racconti, nel quale Centofanti ricorda il suo iniziale lavoro come
studioso dell'opera di Clemente Rebora, uno dei massimi poeti del
Novecento, sacerdote a sua volta e autore – non a caso – di versi che
si prestano a essere letti proprio come straordinario diario di
un'esperienza di fede e abbandono in Dio. Rebora, per Centofanti, era
infatti «il poeta che aveva saputo rinunciare persino alla poesia, vincendo l'ultima partita con uno scacco matto all'Avversario». È, in altre parole, un testimone e un modello non meno impegnativo del già ricordato 'prete bruciato', che Centofanti si premura di identificare in don Mario Torregrossa, il sacerdote romano rimasto invalido dopo il
terribile agguato incendiario subìto nel novembre del 1996. Anche per
questo, come osservano sia Remo Bassini nella prefazione sia Riccardo
Ferrazzi nella postfazione, i «racconti fra cielo e terra» lasciano intravedere un disegno più ampio e complesso. In una prospettiva letteraria, certo. Ma anche – e anzitutto – cristiana.
Fabrizio Centofanti
Guida pratica all'eternità
Racconti fra cielo e terra
Effatà. Pagine 96. Euro 9,00

Pubblicato su Avvenire del 2 settembre 2008

sabato 23 agosto 2008

Giuseppe D'Emilio e Arturo Fabra

Giuseppe D’Emilio e Arturo Fabra recensiscono Guida pratica all’eternità di Fabrizio Centofanti; segue un’intervista all’autore.

Non è facile aggiungere qualcosa a quanto è stato detto, spesso benissimo, da altri recensori di questa raccolta di racconti, i cui interventi sono disponibili sul blog dedicato al libro; perciò, ogni tanto, attingeremo…

Uno di noi è felicemente ateo, l’altro felicemente cattolico; interessante, quindi, almeno per noi, analizzare insieme il libro di un prete (in questa antologia si usa spesso la parola prete, nonostante oggi le si preferisca sacerdote, che pare abbia un che di meno dispregiativo).
L’autore, Fabrizio Centofanti, infatti, è un prete, un prete che ha cose da raccontare, e che sa farlo bene.
E, come afferma Riccardo Ferrazzi nella postfazione: Fabrizio Centofanti è un sacerdote, ma, grazie a Dio, non ci riempie le orecchie con quella oratoria melliflua e democristiana che fa venir voglia di correre a prendere la tessera del PCUS.
E, aggiungiamo noi, non pare nemmeno uno di quei preti, forse ancor più fastidiosi, che ostenta ad ogni occasione “modernità”, anticonformismo di maniera.

Ma partiamo dalla scrittura.

Prevale la paratassi, lo stile è piano, ma, come sa chiunque abbia un po’ di familiarità con lo scrivere, uno stile apparentemente “semplice” è quello più “difficile” da realizzare, più impegnativo. Lo si comprende anche dal fatto che ogni parola è “pesante”, densa di significato, “studiata”, evidentemente.

Bene quindi ha fatto Elena F. Ricciardi a scomodare per Centofanti le Lezioni americane di Calvino; e Centofanti stesso, nell’intervista che segue, indica in Calvino un suo punto di riferimento.

E Giovanni Nuscis osserva:
Dopo la lettura dei primi racconti ci sovvengono alcune voci note: “descrivi il tuo villaggio e sarai universale” (Tolstoi), “parla solo di ciò che conosci” (S. King), “descrivi e non fare il furbo” (Puskin). Ebbene, l’autore, queste voci – e non solo queste - sembra averle ascoltate tutte. Il villaggio è la parrocchia. Le persone che ci vivono o ci gravitano sono i protagonisti di queste storie spesso disperate. L’esattezza, la leggerezza e la rapidità calviniane nel descrivere sono qualità evidenti di questa scrittura.

I racconti, che parlano di disperati, di alcolizzati, di drogati, di emarginati (di “ultimi”, insomma), sono brevi, fulminanti, ma fatti della luce di quei fulmini che lampeggiano lontani nelle notti estive. E a volte Centofanti, in questa ricerca di essenzialità, è aforistico: offre frasi che verrebbe voglia di sottolineare, come si faceva da adolescenti.

I finali sono “naturali”, non enfatici, un acuirsi inevitabile e non una forzatura della narrazione volta a stupire con effetti speciali, a spiazzare a tutti i costi. E, cosa non certo secondaria, si nota una conoscenza vera, non letteraria e ricostruita, del dolore del mondo.

Per quasi per tutti i personaggi di questi racconti la felicità è rinviata all’Aldilà, all’eternità, appunto.
Viene in mente il Manzoni del non resta/che far torto, o patirlo. Ci pare, questa, una possibile chiave di lettura dell’antologia.

La fine, la morte, è accettata non con stoica rassegnazione né con epicurea ineluttabilità; se la vera vita è quella eterna, appunto, è meglio morire prima possibile, per tutti; e al lato ateo di noi due è sempre parsa assurda la parte superstiziosa della religione cattolica, quella che lucra sulle disgrazie per rimandarne l’esito finale, quella, per dirla con Foscolo (ma come siamo ottocenteschi, oggi…) della “venal prece”.

Del resto, in un racconto si legge che quella del mondo è una “felicità illusoria”. Il regno dei cieli, appunto…

Spesso, nei racconti è presente un personaggio: don Mario; come spiega la nostra cara amica Ramona Corrado, si tratta di:

un altro prete, pure lui di strada, un prete sui generis dalle poche parole, molte sigarette e moltissimi fatti. È stato lui a indirizzare l’anima sbandata di un giovane all’epoca alle prese con un dolore immenso e inconfessabile. È stato lui a insegnare a quel giovane a tendere le mani per dare e non per chiedere, e a mettere a disposizione la propria vita per quella degli altri. E non solo in senso figurato.
Don Mario Torregrossa infatti è stato realmente vittima di un folle che gli ha appiccato fuoco, lasciandolo a combattere a lungo tra la vita e la morte, fino a rimanere invalido per sempre
.

La triste vicenda umana di quest’uomo porterebbe facilmente a seguire tentazioni di stucchevole agiografia, ma Centofanti riesce ad evitare questo rischio.

Ma ascoltiamo l’autore…

Sono molti i fili che uniscono i racconti del libro. Uno è decisamente la morte intesa come ingresso all’eternità.

Sì, un motivo è senz’altro quello della morte che non solo non costituisce la fine della storia, ma in un certo senso ne è l’inizio. È come se ci si svegliasse a una dimensione sulla quale l’uomo, con i suoi egoismi e le sue violenze, non ha più potere. Il povero non può essere ignorato o maltrattato, il deviante non può essere giudicato. In questo risveglio l’elemento decisivo è l’apertura del cuore, l’accoglienza di qualcosa che ci viene dato senza alcun segno di contropartita, solo perché siamo noi, e abbiamo accettato di essere noi stessi fino in fondo con i nostri difetti e le nostre stranezze: Agatino (il protagonista di uno dei racconti, ndr) è l’emblema di un mondo rovesciato che superficialmente si giudica maledetto, e che invece è visitato dolcemente da Dio. Questo elemento potremmo chiamarlo speranza: niente di astrattamente teologico; solo la certezza che sono degno di essere amato, chiunque sia e qualunque forma abbia la mia vita. L’eternità è per chi crede che anche una lacrima ha un senso forte, suscita un sentimento riconoscibile nel cuore di Dio.


Infatti insieme a questo “strano” concetto di morte è altrettanto bello quello di amore che viene fuori dai racconti, vero?

Come preti facciamo una vasta esperienza della depressione umana. L’essere umano è depresso perché non riceve attenzione, perché passa inosservato. Questa è un’ingiustizia somma. Nessuno è così abietto o così insignificante da non meritare lo sguardo dell’altro. Sentirsi guardati, presi in considerazione, sentire l’attenzione che si concentra su di te, rinfranca finalmente il cuore, fa vivere l’esperienza della seconda nascita, ossia l’accorgersi di essere amati. La vita comincia solo in quel momento.


Spostiamoci al versante letterario, ora. Lo stile dei racconti è intriso di influenze fantastiche più che trascendentali, tanto che alle volte pare di leggere Buzzati. È un’ impressione errata?

Il mio maestro è Calvino. Quando l’ho incontrato ho capito cos’è la letteratura e soprattutto quale può essere la sua funzione. Calvino si sofferma su ogni parola, non lascia nulla al caso. È quell’attenzione di cui parlavo prima. Una parola può essere la chiave per aprire un mondo. Ma, come ogni chiave, dev’essere perfetta, ogni piccolo errore può renderla inefficace, impedire l’accesso. La letteratura insegna che il linguaggio è una cosa seria, come la vita. Guai a perdere un dettaglio, rischia di sfuggirti il senso. E il senso, nella vita, è tutto.

Quanta di questa attenzione alla parola può essere attribuita all’importanza che La Parola ha nella vita di Fabrizio Centofanti?


Tutto nasce dalla Parola. È Dio che mi insegna ad ascoltare il ritmo della vita e del linguaggio, lui che si ricorda di me, e mi parla. L’ascolto è anche la costruzione del discorso, la disposizione delle parole, la scelta del singolo termine. Più si ama, più si scende nel dettaglio. La teologia è necessariamente anche filologia, studio appassionato di un testo che rivela sempre nuove sfumature. La grammatica della lingua corrisponde alla grammatica della vita. C’è un passaggio segreto che le mette in comunicazione e questo passaggio è l’ascolto, il ricordo dell’altro.

Dunque la scrittura, e non solo la lettura può diventare una Guida Pratica All’Eternità, un’abitudine al Bello come viene inteso in La Poesia e Lo Spirito, il sito di cui Fabrizio Centofanti è creatore/redattore.

Sì, anche la scrittura insegna cosa dire, perché l’eternità ha le sue parole, come ha i suoi fatti. Ci sarà chiesto conto di ogni parola perché nessuna parola può essere privata del suo senso. La scrittura diventa guida alla bellezza, ma è la bellezza dell’eternità, di quella vita che ha dentro un germe che non muore. Da questo punto di vista, la letteratura entra a pieno diritto nell’ambito del sacro: teoricamente, ogni scrittura è una scrittura sacra, se si lascia guidare dal creatore della bellezza. Se si va al fondo della poesia, si trova Dio.

Fabrizio Centofanti è laureato in Lettere moderne con una tesi su Italo Calvino. Sacerdote diocesano a Roma dal 1996, opera soprattutto nel campo della spiritualità e dell’approfondimento della Sacra Scrittura. Ha pubblicato un volume su Calvino (Una trascendenza mancata, Istituto Propaganda Libraria, 1993) e uno su Rebora (Il segreto del poeta. Clemente Rebora: la santità che compie il canto. L’immagine interiore dagli appunti sul messale, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1987) oltre a numerosi saggi e articoli di natura letteraria. Nel 2005 è uscito il volumetto Le parole della felicità, edito dalla Laurus Robuffo. Del 2008 è il libro di racconti Guida pratica all’eternità, Effatà editrice, Torino.

Descrizione del volume

* Titolo: Guida pratica all’eternità. Racconti fra cielo e terra
* Autore: Centofanti Fabrizio
* Editore: Effatà (collana Il piacere di leggere)
* Data di Pubblicazione: 2008
* ISBN: 9788874024230
* Numero pagine: 96

giovedì 31 luglio 2008

Antonio Sparzani


Non so se si tratta di una guida pratica all’eternità, certo è una guida a conoscere un mondo complesso e quotidiano, intriso di fantasia e di cruda realtà, di metafore ardite e di torte di fango.
Una ventina di racconti. Brevi, esili, sembra, però dei flash, accesi per un attimo su un intrico di realtà, che si srotolano alle porte di Roma, intorno a quella stazione che vedete nell’immagine.

Sullo sfondo di tutto sta la costruzione di un centro per i giovani, meglio se sfigati assai, e la presenza di un sacerdote eccezionale, ovunque nominato come don Mario, che questo centro ha voluto e ottenuto con un’energia e un coraggio incredibili.
Fabrizio Centofanti, tra autobiografia e metafora, ci infila a poco a poco in questo mondo, senza pesantezze e senza trattati, ma con mano sicura, forte di una vita spesa senza risparmio vicino a realtà al di là di qualsiasi border-line.

Per capire chi sia questo don Mario, nume sullo sfondo – o forse davvero in primo piano – in tutti i racconti, basta leggersi la storia di Agatino.

«Agatino era un uomo del buio, e veniva nel mondo della luce solo per causa di forza maggiore, per sbarcare il lunario con le sue incombenze da fattorino fuori sede.»
«Un giorno, una beghina della parrocchia chiese di una persona che potesse lavorare nel giardino. Don Mario si rivolse ad Agatino, nella speranza che potesse farcela; lui si mise a dormire su una sedia a sdraio e pretese, alla fine, di essere pagato, senza aver mosso un dito. La donna s’infuriò e cominciò a urlargli sulla faccia. Agatino le rispose per le rime: “Zoccola, zoccola!”. Lei, figùrati, che zoccola non gliel’aveva detto mai nessuno, andò di corsa dal parroco a gridare: “O lui o io!”. Don Mario disse: “Lui”. Quando don Mario rispose : “Lui”, l’anziana signora sbiancò, incredula.»

Fabrizio abbozza così i personaggi, e abbozza anche se stesso, anche il se stesso di prima della vocazione, l’italianista con davanti una promettente carriera da un lato e dall’altro il ragazzotto tutto Ceres e desiderio, e corse in macchina sui litorali lunghi e diritti del Tirreno. Tutto visto come attraverso il velo di una lieve foschia, metafora di un passaggio, un vero salto di vita, una metamorfosi che ha preso la vita di Fabrizio e l’ha rigirata, mantenendone tanti elementi ma dando ad ognuno di essi un angolo di prospettiva del tutto nuovo.

Non tutto è stretta autobiografia, nel primo racconto parla in prima persona un editore straricco che adora i libri, ne ama l’odore, la forma, eccetera, ma ad un certo punto qualcosa d’altro spunta: «Forse anch’io, più che desiderare di abitare, abito davvero le pagine di un agile racconto, mi aggiro tra le righe come la proiezione idealizzata dell’autore….», spunta cioè anche qui un’anima di Fabrizio, una delle molte componenti della sua complessa personalità.

C’è la storia di Mario, caratterista di cinema, che un giorno trova l’amore della sua vita, una donna russa con la quale nasce e s’ingigantisce un rapporto di straordinaria passione e di amore totale, troppo rapidamente troncato da un incidente di macchina che si porta via la ragazza. Mario si dispera, beve e beve e beve e non smette finché si rifugia dal suo omonimo sacerdote che lo accoglie senza discutere come sempre: si instaura tra i due un rapporto nel quale l’uno cerca in ogni modo di bere e l’altro cerca di limitarlo; è perfino divertente, nella sua tragicità, la descrizione dei trucchi che Mario inventa per procurarsi la bottiglia. Continua così finche Mario muore, come era ovvio – l’unico momento in cui chiede un bicchier d’acqua.

Inutile descrivere altri esempi e casi, son tutti diversi l’uno dall’altro, e anche tanto uguali nella densità di una partecipazione vera ai destini di diseredati di ogni tipo, in mezzo ai quali l’autore riesce ad essere, come raramente, con la persona e con la penna.

lunedì 30 giugno 2008

Marco Guzzi

Carissimo Fabrizio,
grazie del libro che mi hai inviato e che sto leggendo con gusto e con pazienza. Senza fretta cioè, un racconto o due per volta.
Sembrano a volte brevi parabole contemporanee, sempre pregne di insegnamenti, attinti però dalla semplicità delle storie più feriali, come Polvere, ad esempio: il disegno preciso e insieme misericordioso di un carattere e di un destino.

Ciò che in particolare mi interessa è la visione generale del fare poetico che mi sembra soggiaccia a tutto il tuo lavoro, e cioè la preminenza della vita sulla letteratura.
Non a caso in Scacchiere parli di Rebora che seppe rinunciare perfino alla poesia "vincendo l'ultima partita con uno scacco matto all'Avversario". La scrittura infatti può diventare idolatria.
Leggiamo a volte veri e propri deliri sul ruolo del poeta, senza che si comprenda il senso autentico di questa vocazione, e cioè la diaconia nei confronti di una Parola che è più grande di noi e che solo nella più umile vita concreta, e nel servizio, trova la sua più piena incarnazione.
Ecco, nei tuoi racconti si sente che per te la scrittura è al servizio della vita e non viceversa.
Speriamo che questa Guida pratica possa raggiungere molti viandanti e molti dispersi.

Un abbraccio grande e affettuoso
Marco Guzzi

giovedì 26 giugno 2008

Paolo Cacciolati

Ho poco da aggiungere, rispetto a chi mi ha preceduto, sui racconti che compongono questa raccolta di Fabrizio.

Io leggo, leggo questo libro arrivato a casa mia per vie non solo postali, leggo molte altre cose, forse troppe cose, e mentre leggo faccio una fatica (quasi sempre) bestiale a recuperare un senso, anzi il senso, delle pagine aperte davanti a me. Tutto (o quasi) mi sembra inutile, già letto e già detto. Tranne in qualche caso. Uno di questi è il libro di Fabrizio. Limpido, nella predisposizione alla ricerca di eternità, come suggerisce il titolo, ma eternità per chi? per i protagonisti dei racconti? per i lettori? e per l'autore? Chi è Fabrizio Centofanti? E' un prete? E' uno scrittore? E' uno che combatte ogni giorno contro tremendi mulini a vento? O è semplicemente un uomo, come tutti noi, che cerca anche per sè, oltre che per gli altri, una via per l'eternità? Ecco, vorrei mettere l'accento su quest'ultimo punto, perchè mi piace leggere questo libro non tanto come una raccolta di racconti, quanto come una specie di romanzo di formazione, composto sì da tanti episodi, da tante particelle diverse che sono le persone e le storie di cui ci parla, ma che alla fine si riassemblano in un unico mosaico il cui disegno complessivo è dato dalla tensione dell'autore verso il proprio, lo sottolineo, il proprio, percorso per l'eternità. Percorso condiviso, comune, ecumenico, tutto quello che vogliamo, ma secondo me prima di tutto suo, nella sua unicità di uomo, come tutti noi. E proprio qui sta il bello, perchè altrimenti, se leggessi questo libro "solo" come una testimonianza e non come una dolorosa ma necessaria bildungsroman (ecco, l'ho scritto, chè quando si parla di romanzo di formazione mica uno può esimersi dall'usare cotanto parolone), faticherei ad avvertire la pacifica potenza della scrittura di Fabrizio, a decifrare quella corrente sotterranea che attraversa l'anima dei protagonisti di queste storie.

Un supporto a questa lettura, me lo fornisce lo stesso Fabrizio quando, presentando il libro, dichiara:"prima si raffigurava Dio come un grande occhio in un triangolo, si voleva dire che siamo sempre sotto controllo, anche quando nessuno ci vede. Secondo me, bisognerebbe invece raffigurare Dio con l’immagine dell’orecchio: è uno al quale puoi finalmente raccontare la tua storia, uno che ti ascolta, e ascoltandoti guarisce le tue ferite. Il giudizio finale me lo immagino così: un grande libro di racconti, in cui non c’è più nessuno che ti giudica, ma solo un orecchio attento e partecipe, che cura i tuoi traumi, e libera finalmente le tue energie. La verità, insomma, sarebbe ancora una volta nel rovescio delle cose."

Non a caso, secondo me, Fabrizio ha scelto di riportare questa immagine dell'ascolto, quasi che chiedesse al lettore di "sostituirsi", nel suo piccolo, per l'istante della lettura, all'orecchio divino. Spero di non esser stato blasfemo, in quello che ho appena scritto, ma non mi pare di passare per eretico o dissacrante nel dire che questo libro e coloro che lo leggono consentono all'autore di trovare un medium terreno nell'ascolto della propria ricerca di eternità, anche tramite queste storie degli ultimi.

Per il resto, non ho molto altro da aggiungere alle bellissime cose che sono già state scritte su questa Guida pratica all'eternità.

Aggiungo solo che avrei visto bene in prima pagina, oltre all'introduzione di Remo Bassini, questa citazione dai Pensieri di Pascal:"Quando considero la brevità della mia vita, inghiottita com'è nell'eternità che la precede e che la seguirà, lo spazio minuscolo che io occupo e che è a me visibile, gettato come sono in una vasta infinità di spazi di cui non so nulla e che nulla sanno di me, mi spavento e mi stupisco di trovarmi qui anzichè là, e ora anzichè allora. Chi mi ha posto qui? Per ordine di chi e in virtù di quale destino guida mi è stato assegnato questo tempo, questo luogo?"

Insomma, in queste parole di Pascal io ravviso una formidabile chiave di lettura per questa guida all'eternità.

mercoledì 18 giugno 2008

Ramona Corrado

Ho letto qualche giorno fa questo libro.
E poi l’ho riletto, con calma e attenzione.
La prima volta l’ho bevuto, la seconda l’ho assaporato.
Poi l’ho ripreso ancora in mano. Colpita ed emozionata.

È un libricino piccolo, quasi tascabile, vestito di uno splendido sole giallo griffato Van Gogh (Seminatore col sole che tramonta, Vincent Van Gogh, 1888), che sembra fatto apposta per infondere ottimismo e speranza. Nonostante.
È un libricino dal costo contenuto, appena 9 euro, quasi non osasse chiedere di più per pudore… costa niente in confronto ai nomi più o meno altisonanti riposti sugli scaffali delle librerie.
Ma io non l’ho comprato.
L’ho avuto in dono.
Con un gesto straordinariamente gentile me lo ha regalato l’autore, don Fabrizio Centofanti, anticipando la mia volontà di ordinarlo online.
Ringrazio ancora il Fabry, come lo chiamano gli amici, per avere pensato a me.
Mi piace pensare, con una leggera presunzione, che questo dono sia dovuto alla nostra vicinanza di pensieri e situazioni, alla condivisione di esperienze di vita difficile, che, sia pure in campi diversi, io nella sanità, lui nel sociale e nel quotidiano parrocchiale, ci accomuna. Entrambi abbiamo infatti contatti ravvicinati con l’umanità derelitta, io malata nel corpo, lui nell’anima. E spesso una delle due cose non esclude l’altra.

Conosco da poco il Fabry, e nemmeno di persona.
È stato lui a cercarmi, un giorno, a dire seguimi.
Dove?, gli ho chiesto.
Dentro LA POESIA E LO SPIRITO (LPELS).
E perché proprio io?
Perché sei come sei, è stata, più o meno, la risposta.
Come un Gesù pescatore di uomini, il Fabry ama pescare chi più gli sembra propenso a condividere il suo progetto di cambiare il mondo con l’amore, la bellezza e la poesia.
Ero incredula. Cosa mai potevo fare io in una cerchia di persone dal così alto valore intellettuale e culturale?
Me lo sto ancora chiedendo. Ma il Fabry non se lo chiede, a lui davvero vado bene come sono.

Don Fabrizio è un uomo colto, amante della letteratura, della poesia e della musica. Uno che scrive, anche. Ma don Fabrizio è anche un prete di strada. Uno che da quando ha indossato la tonaca la usa e la consuma nella discesa infinita dentro i tanti gironi di quell’inferno chiamato vita.
Uno che si rimbocca le maniche, che si mette al servizio degli altri, tanto più quando sono deboli, maltrattati e discriminati.
Un prete che fa il prete, che non si limita a indicare la via, ma la percorre per primo.
Un prete che scrive e veste di sole un piccolo libretto di speranza.

Questo libricino che ha per vestito un enorme sole giallo, s’intitola GUIDA PRATICA ALL’ETERNITA’, Racconti tra cielo e terra.
Tecnicamente è, appunto, una raccolta di racconti. Ma come per incanto ogni racconto è anche un ritratto, una confessione o una riflessione. Un’occasione per sguazzarci dentro, come ho fatto io, affascinata da sempre dai racconti di vita vissuta, specie quando questa è dura e fa male.
Non so se sono masochista… è che sono convinta che solo confrontandosi con il dolore altrui si sminuisce il proprio. È guardandoci intorno che possiamo dire, ma sì, in fondo, c’è chi sta peggio, e allora possiamo provarne compassione, dimenticando il nostro stesso egoismo.
E al tempo stesso possiamo consolare i nostri timori: nessuno è mai veramente solo, qualcuno è sempre al fianco di qualcun altro. Nemmeno i più disgraziati, i più derelitti, i più abbandonati, sono soli. Qualcuno che lotta anche per loro c’è, senza paura di esporsi in prima persona, e ci sembra impossibile che questo avvenga nel cinico mondo che ci ospita.
Testimonianze come queste non possono, in ultima, che incoraggiarci a fare qualcosa anche noi, nel nostro piccolo, per rendere migliore il nostro tempo.
Piccoli eroi quotidiani, anonimi, ma indispensabili.

Nel libricino vestito di sole il Fabry ha messo molto di sé e delle persone che ha conosciuto grazie al suo mestiere di prete di strada. Persone specialissime. Disadattati, alcolizzati, tossicodipendenti. I rifiuti della società, abbandonati lungo i margini, come la monnezza di Napoli. Sono loro quelli che più hanno bisogno di un aiuto o di un amico, e anche se non te lo diranno mai, anche se ti rendono la vita difficile, accettano in qualche modo di essere aiutati.

Nelle parole racchiuse nel libricino dal vestito giallo di speranza, si legge pietà per queste persone, comprensione, solidarietà, talvolta rabbia, ma sempre il desiderio di aiutarle e mai una critica alle loro scelte. Seguendo così un filo conduttore, un esempio a cui il Fabry ha attinto a piene mani. L’esempio di un altro prete, pure lui di strada, un prete sui generis dalle poche parole, molte sigarette e moltissimi fatti. È stato lui a indirizzare l’anima sbandata di un giovane all’epoca alle prese con un dolore immenso e inconfessabile. È stato lui a insegnare a quel giovane a tendere le mani per dare e non per chiedere, e a mettere a disposizione la propria vita per quella degli altri. E non solo in senso figurato.
Don Mario Torregrossa infatti è stato realmente vittima di un folle che gli ha appiccato fuoco, lasciandolo a combattere a lungo tra la vita e la morte, fino a rimanere invalido per sempre.


La figura di quest’uomo straordinario, ancora prima che sacerdote, ricorre spesso nella narrazione di Fabry. Umanamente, come un ritornello senza fine e senza un perché.

E come un ricordo doloroso e ricorrente racconta, quasi a cercare ancora di farsene una ragione, di come fu lui a soccorrere don Mario dopo l’attentato. E poi la lunga pazza corsa verso l’ospedale, con il bisogno segreto di bestemmiare senza poterlo fare (“Trasportando don Mario in ospedale lo vedevo tremare, e pensavo che una bestemmia in questi casi non può essere peccato. Avevo torto, ma il vuoto mi spingeva sui versanti sconosciuti di un dolore feroce, insostenibile, con lo stesso colore del sangue e dei semafori che intimavano l’alt e che io non potevo rispettare, come tutto il resto, se non il suo corpo martoriato, che tremava.” La bestemmia soffocata). E ancora l’angosciosa attesa e le preghiere e il disperato bisogno di credere alle previsioni di un veggente o presunto tale che assicura “si salverà”.

Nelle parole di questo libricino, esile ma pieno di fiducia, ci sono i protagonisti, estratti da un’umanità dolente e terribilmente autentica.
C’è l’attore che diventa alcolizzato dopo che gli muore la bellissima compagna russa, (“….capace di trasformare in sogno le ore della sera, al punto che non capiva come prima si potesse accontentare di quella cosa che chiamava vita. Facevano presto a ritrovasi avvinghiati l’uno all’altra, come se Mario avesse paura che il sogno gli sfuggisse, che un genio cattivo, geloso della sua gioia, gli strappasse dalle braccia il più bel film della sua vita. E così fu.Come un film.). Bugiardo e infingardo, apatico e indisponente, sempre sbronzo, prende il letto che il parroco gli offre, in canonica, e non lo lascia fino alla morte.
C’è l’arrivista che brucia la propria vita in un attimo, come un vulcano (“Nella vita avrebbe fatto qualcosa di grande, come l’Etna, che torreggiava sulle strade del suo paesone”. Vulcani).
C’è il tossico che le escogita proprio tutte per sfruttare gli altri, soprattutto i preti, senza rinunciare alla roba (“Sui preti ci puoi sempre contare, non c’è nessuno che si faccia infinocchiare come loro.” Canonica Paradiso) e rubare un posto in canonica, e magari in paradiso.
C’è la prostituta che domanda aiuto con umiltà e disperazione, per il figlio tossico che nessuno vuole curare, e il suo bisogno di aiuto è uguale al bisogno di tutti (“Anna ci chiedeva di aiutare il figlio, e ricordavo l’aiuto che avrei voluto anch’io quando tutto era crollato. Ci sono giorni in cui il tempo è sospeso sul desiderio d’impuntarsi, di dire no alla macchina infernale che ti stritola; […] e perfino la notte ti compatisce con gli occhi spalancati delle stelleCome stai?)
E c’è anche la suora terribile pronta allo scontro, ma che poi si ammala di tumore e diventa dolcissima e paziente, tanto da far capire, con la sua storia, che “…le rabbie e i sogni di noi umani sono un pugno di polvere lanciato verso il cielo, in attesa dell’inevitabile caduta.” (Polvere)
E altri ancora.

Ma nelle parole graffianti di questo libricino dalla veste galla c’è anche il calvario di don Mario e la crescita interiore di un ragazzo dalla vita vuota e difficile (Mani e Pugili allo specchio). E forse proprio queste sono le storie che personalmente mi hanno catturata più di ogni altra. Mi succede sempre, quando le adatto alla persona che le ha scritte e che conosco, perchè entro, in questo modo, nel suo intimo più inviolato. E mi sforzo di farlo inpuntadipiedi, con rispetto…

Nelle pagine di questo piccolo libro c’è la voglia di bestemmiare, ma anche il ringraziamento a Dio, c’è la passione per l’uomo come essere divino e miserabile, ma anche quella per l’omelia e il mistero della Messa.
In queste pagine, insomma, ci sono dei racconti, che non sono solo racconti da leggere, ma vita da bere.
La scrittura secca e allo stesso tempo poetica del Fabry, rende facile la lettura. Facile la riflessione, facile l’immedesimazione, facile l’emozione e il desiderio di conoscere da vicino una persona speciale come il Fabry, prete di strada, scrittore dell’anima.

domenica 1 giugno 2008

Francesco Marotta

Fabrizio, tu dici: “grazie per il bellissimo dono”. Ma il vero dono è già annunciato dalle parole di Giorgio, e si rivela, nella sua umanissima e compiuta bellezza, nelle pagine che racchiudono, come uno scrigno senza chiave, i racconti di fraterna, dolente umanità che compongono il libro.
La sostanza etica da cui scaturisce ogni parola di Giorgio, infatti, non è altro che la risposta, l’unica possibile, a chi ti avvicina reggendo in mano un dire impastato nella stessa materia, animato dallo stesso respiro, dalla necessità, che si fa spasimo e dolore fisico e paura e speranza, di provare ogni giorno, in ogni momento, le proprie certezze, piccole o grandi che siano, al fuoco dell’esistenza concreta e non della sua immagine idealizzata: senza mai dimenticare che il fuoco che riscalda e genera è lo stesso che consuma, che brucia e incenerisce: l’alito materno che dà vita o la ripugnante fiamma della storia che si accanisce contro un corpo già provato da ogni rinuncia.

Il tuo libro è di una “humilitas” sconcertante, “scandalosa”, che attanaglia: come una “pietra” lanciata con forza, anche quando assume vesti e forme di piuma, contro la finzione, il perbenismo, le convenzioni, le maschere quotidiane, il falso ossequio e gli ancora più falsi rituali di una carità e di una pietà ridotte al rango di stanche abitudini: capace di mettere da parte dogmi e dottrina e di fotografare, in alcuni racconti in modo indelebile, lo spazio esatto di volti che si cercano, che si scambiano respiro e pelle pur senza mai sfiorarsi, che si rincorrono per condividere l’attimo in cui la vita gli si è rivelata, o gli si rivela, nella sua estrema, assoluta nudità: come se questo fosse l’ultimo, o l’unico, scopo da realizzare nei propri giorni. E la vita che ne emerge è il cammino esatto di chi continua a cercare, anche quando il terreno sembra dileguare o scompare del tutto sotto i piedi; anche quando l’unica certezza che si ritrova non è altro che il nulla di orizzonte di chi annaspa nel vuoto: ma, nonostante ciò, ha ancora la forza per rimirarsi nello specchio della sua memoria, quella dei propri passi, quella di un’eco superstite: l’immagine precisa, netta, incancellabile, di chi parte alla ricerca di un uomo di cui conosce appena il nome, e in un paese straniero continua a sussurrarlo alla gente incredula, stupita, intimorita.

E’ un libro della “condivisione”, la condizione ormai rimossa, perché inservibile e inutilizzabile dalle logiche del dominio e dell’egoismo, di chi scopre l’universo al suo primo apparire nei disegni di un bambino, e sa, in cuor suo, che non gli resta altro che contemplare, davanti a quel fluire di segni incerti, tutte le sue teorie, la sintassi, le proporzioni, le regole, il dettato, l’ordine, l’agire, mentre si riducono in fumo e svaniscono come nebbia cancellata dalla luce irriducibile di quei tratti sghembi, elementari. Ed è esattamente quello che avviene in questo piccolo, grande libro dove l’unico miracolo possibile, a misura umana, è proprio l’umana misura, quel “condividere” che ha l’ardire di cancellare l’accumulo, il “moltiplicare” su cui si fonda la sua stessa storia: un intero oceano ridotto a un minuscolo graffio di colore blu su un foglio. E’ così: la mano che ricostruisce l’alfabeto delle vite narrate ha dita infantili: lo scrittore, l’intellettuale, l’uomo colto gli mette a disposizione lo strumento di una struttura armoniosa, essenziale, luminosa nella disposizione e nei procedimenti che ne incanalano il flusso: ma lo sguardo, la percezione e la trasposizione dell’esistente in “quei” colori sono attimi di una pupilla vergine che cresce, e ingigantisce, insieme alle “cose”, che si immerge nella corrente del mondo, ne diventa parte, non giudica, ne legge i segni, la sofferenza: scoprendovi per la prima e l’ultima volta la radice profonda del proprio volto.

Molti anni fa ebbi la fortuna di conoscere padre Turoldo. Mi fu presentato da un compagno di lavoro che era stato un suo allievo. L’avrò visto in una decina di occasioni, e ogni volta erano lunghe chiacchierate, discussioni accese e febbrili su libri, sulle vicende di quei giorni straziati, memorie e racconti degli anni di guerra che non avevo mai vissuto. Ricordo che una volta stetti ad ascoltarlo per molti minuti senza dire una parola. Lui mi guardò con occhi ancora più profondi e mi disse: “Io so cosa vorresti chiedermi: perché ti parlo tanto, di tutto, tranne degli abiti che indosso; tu aspetti solo di sentirmi dire chi è nel giusto, anzi, che io sono nel giusto. Tu aspetti dalle mie parole la conferma a una tua verità, da contrapporre alla mia”. Non risposi. “Ricordati che non è quello l’essenziale. La strada è una, e la si percorre in mille modi diversi, con passi più o meno franti o sicuri. Tu pensa solo a percorrere la tua, quale che sia, e a rimanere te stesso nel cammino. E a chi ti dice che non lasci impronte, regala un pugno di sabbia: il ricordo del deserto che hai attraversato.”

Non l’ho mai dimenticato.

Ecco, ho voluto condividere con te questo ricordo: per ringraziarti del libro, in cui parli della mia gente, del mondo ai margini del mondo in cui sono nato e dal quale non sono mai uscito; perché mi piace pensarti, con abiti e passi diversi dai miei, mentre ogni giorno attraversi quel deserto: perché io saprei riconoscere, in ogni momento, la voce della sabbia che porti stretta alle dita.

sabato 31 maggio 2008

Stefanie Golisch

Funamboli

I racconti di Fabrizio Centofanti


Non sono salvi.

Ma trovano nei racconti di Fabrizio Centofanti una dimora. Fragile e precaria com’è nella natura della letteratura che è fatta di parole e di suoni, di allusioni e intuiti.

Li chiama con il loro nome - Antonio, Agatino, Mario, Anna - questi uomini e donne al margine della società. Coloro che non ce l’hanno fatta in un mondo spietato che perdona piuttosto il crimine che l’insuccesso.

Guardare dove la maggior parte distoglie lo sguardo per ridare la dignità a chi l’ha persa, sembra essere il programma di questi racconti che portano il lettore direttamente nel cuore di una realtà che, a prima vista, di letterario ha ben poco.

Non sono personaggi attraenti che al mondo hanno qualcosa da raccontare o insegnare, al contrario: il loro messaggio è la difficoltà di vivere, il fallimento di piani e progetti, sogni e attese. Sono uomini e donne deboli, ma uomini e donne in cui ci si può comunque riconoscere.

E questo è proprio il merito della scrittura precisa e attenta di Fabrizio Centofanti.

Sarebbe stato facilissimo, proprio davanti a un tale proposito, sbagliare tono. Diventare dolciastro o lacrimoso. Compatire questi poveracci dall’alto al basso, dalla posizione di chi è, al contrario loro, salvo e sapiente.

Ma la scrittura di Centofanti ci fa capire l’esatto contrario: non possiamo non riconoscerci nella loro delusione e nei loro fallimenti. La possibilità tragicamente mancata - o spensieratamente giocata - non è il contrario della possibilità realizzata, ma nel quadro completo della vita umana sono un’unità indissolubile.

L’uno non è pensabile senza l’altro. Il nostro equilibrio personale, che è l’equilibrio del mondo intero, è fragile - e sulla fune non si gioca soltanto il destino del funambolo.

Il racconto Come un film parla proprio di questo scambio di ruoli e di destini. L’attore Mario, un uomo che dopo una grande delusione amorosa perde la sua stabilità psichica, abbandonandosi all’alcol, porta lo stesso nome del parroco don Mario che lo accoglie in casa sua, cercando invano di trovare una soluzione per i problemi dell’altro.

L’alcolizzato nel letto che il prete gli ha ceduto o al telefono, fingendosi il suo benefattore: i due Mario non sono la stessa persona, ma certamente portano l’altro in sé; come una delle infinite possibilità di cui l’uomo è il contenitore.

Fallimento e successo non come due poli estremi, assoluti, ma come l’abissale danza del funambolo che in ogni momento è nel pericolo di perdere il suo equilibrio.

Come se fosse necessario, nella logica del mondo, c’è chi cade e c’è chi si salva. Ovviamente non è la stessa cosa, ma il vincitore e il vinto sarebbero impensabili senza la loro battaglia continua.

Non si può sfuggire dallo sguardo dell’altro: così come il suo trionfo, anche la sua miseria è, intimamente, la tua.

martedì 27 maggio 2008

Giorgio Morale

Caro Fabrizio,
ho appena finito di leggere il tuo Guida pratica all’eternità. Non vorrei al momento analizzare l’opera dal punto di vista estetico-stilistico: esso fa parte dell’educazione e della sensibilità del Narratore che nel libro dice “io”; ma sintetizzo quello che potrei dirne con le parole di Giovanni Nuscis: “L’esattezza, la leggerezza e la rapidità calviniane nel descrivere sono qualità evidenti di questa scrittura”.
Hai scritto un libro di racconti brevi, ma con una struttura salda e ben costruita. In apertura hai posto un preambolo, il racconto L’editore, una sorta di protasi in cui dichiari la tua fiducia nei racconti “leggeri e discreti”, che “passano quasi inosservati, ma gettano semi di storie che qualcuno raccoglie e fa fruttare altrove”. Cominci quindi con Scacchiere, in cui presenti il te stesso di anni fa a un bivio, alle prese con la scelta tra l’accademia letteraria e la vocazione religiosa.
Poi prosegui con racconti disposti secondo una progressione romanzesca, che io assimilerei alla tipologia del viaggio iniziatico. Poco importa se a muoversi non è il protagonista, ma le varie figure che vanno a lui: l’io viaggia trasferendosi in loro. È l’io di Fabrizio Centofanti attore e narratore che fa da filo d’unione, ritraendosi dietro le quinte nei vari incontri, per venire in primo piano alla fine.
Naturalmente per noi occidentali il viaggio iniziatico per eccellenza è la Commedia dantesca, il cui modello mi pare di vedere in filigrana anche in questo libro. Infatti cominci l’opera con incontri da Inferno contemporaneo: disoccupati, ladri, barboni, prostitute, drogati, ubriaconi, con don Mario come un novello Virgilio a farti da guida. Poi c’è il Purgatorio di figure troppo prodighe, supponenti, inflessibili, dogmatiche. E infine il tuo Paradiso: la tua fede, la messa, la celebrazione eucaristica. Proprio queste ultime sono tra le pagine più coinvolte e coinvolgenti, in cui tu pellegrino lasci anche la guida di don Mario per affrontare da solo il tuo compito, e diventare uno dei personaggi, accomunato agli altri dalle tue povertà, i tuoi dubbi, le tue paure.
Come spesso avviene alla fine di una recherche, la rivelazione cercata è la più semplice che si possa immaginare: al fondo di tutto si trova se stessi, la propria immagine, la propria vocazione: “la vocazione, è nata da una luce improvvisa, mentre prima sembrava tutto grigio” (nel racconto Il canto del gallo). Così si chiude il cerchio aperto con Scacchiere.
Insomma, non voglio fare un’analisi del libro, Fabrizio, quello che mi preme dirti, a libro appena concluso, è che hai sortito l’effetto che alcune opere sortiscono: fare desiderare la condizione del personaggio-Narratore: sì, in alcuni momenti ho desiderato essere te, per poter avere un’esperienza grande come la tua delle sofferenze umane.
L’attenzione per i poveri e la sofferenza presente nei tuoi racconti mi fa venire in mente alcune parole di Flannery O’Connor: “Se vuoi scrivere racconti, non scacciare i poveri dalla soglia di casa… i poveri hanno meno bambagia a proteggerli dalla brutalità della vita… il romanziere li avrà sempre con sé, perché riesce a trovarli ovunque… agli occhi del romanziere siamo tutti poveri, e il povero soltanto simbolo della condizione di tutti gli uomini… Il mistero dell’esistenza traspare sempre dal tessuto delle loro vite ordinarie” (da Nel territorio del diavolo).
Tu protesti perché “Vogliono un prete senza errori. Una macchina infallibile”. E racconti di una signora che viene in sacrestia a dirti: “Don Fabrizio, devo dirle una cosa, anche se so”. Che cosa? “So che è comunista”. Forse perché dici sempre che “sui pani hanno sbagliato operazione: condividere, non moltiplicare”. Perché dici che “La forma perfetta è la faccia dei poveri. Ossimoro vivente: la mancanza di tutto e la pienezza” (nel racconto La forma perfetta).
Ma non vedo che errore ci sia in questo. Tutto questo è strettamente legato alla tua fede, credo infatti sia vero quanto dice ancora Flannery O’Connor: “Più intensa è la luce della fede, più evidenti saranno le storture che lo scrittore vede nella vita attorno a sé”. E inoltre: è necessario, queste storture, “farle apparire come storture a un pubblico abituato a considerarle naturali”.
E questa è anche la mia esigenza. Pertanto ti ringrazio di questo libro e ti abbraccio.
Giorgio

lunedì 26 maggio 2008

Mario Galzigna

Da Ibridamenti

Maddalena mi dice: *Sto scrivendo un commento al libro di don fabri* (così lo chiamiamo tra di noi)...
Scuoto il capo. Ci risiamo, dico. Un nuovo *agìto*, una nuova iniziativa, tra le tante collegate a questo nostro maledettissimo [:-)] blog (Ibridamenti), che rende il mio *accesso* a madmapelli sempre più arduo, sempre più difficoltoso...
Mad esce con la bambina: il suo vero ancoraggio al mondo dei viventi...
Lascia il libro di don fabri sul letto, con dei postit verdi che sbucano fuori dalle pagine, quasi a promettere ricche esegesi, commenti, annotazioni...

Incuriosito da tanta *dedizione*, un po' insospettito dal titolo, evocatore di fantasmi religiosi a me estranei, apro il piccolo libro. Leggo prima i passi sottolineati da mad, o commentati nei postit verdi. Ma sùbito abbandono questa postura troppo familiarista e comincio a leggere. Vengo, debbo dirlo, immediatamente travolto dalla lettura (alla quale, non ultima, mi sprona la prefazione dello stimatissimo Remo Bassini)...

Microstorie, riprendo Bassini, sospese tra la disperazione e la speranza. Microstorie attivate non dalla fantasia, ma dal ricordo, da una memoria partecipe e dolente.
Microstorie che mettono al centro della scena derelitti, emarginati: gli ultimi.
Microstorie che riportano frammenti di realtà: frammenti ricordati, rivissuti, con grande e commovente empatia. Non c'è la fantasia, certo, ma c'è un alone lirico - poetico, empatico, ricco di partecipazione umana e affettiva - che dà colore e spessore a queste microstorie.
I paria, i "suppliziati del linguaggio" (Antonin Artaud), solitamente esclusi dal registro della parola, trovano qui un luogo in cui, direttamente o indirettamente, si riprendono la parola che è stata loro negata...

Andrebbe aperto, anche qui - perchè no? - un bel dibattito sulla visione laica di concetti come spiritualità, trascendenza, empatia.
Trascendenza: movimento che mi porta fuori da me, verso l'altro.
A don fabri dico che discutendo su queste cose troveremmo - ne sono certo - non solo differenze, ma anche punti di incontro e territori di possibile condivisione...

Grazie per questo tuo lavoro, don fabri.
Mario Galzigna

Un libro da ascoltare, di Maddalena Mapelli

(Da Ibridamenti)

Mi ha fatto bene leggere i racconti di Fabry.
E vi dico tutto per filo e per segno.
Che ho saputo per caso che ha scritto un libro. Via mail, gli parlavo del mio, e lui dice, dammi l'indirizzo che te lo mando.
Che appena arrivato a casa, l'ho aperto e lo rigiravo per le mani perché Guida Pratica all'eternità non è un titolo facile da digerire.
Che l'ho messo in borsa, magari prima o poi ci butto un'occhiata.
Che mentre ieri sera Mario mi raccontava del convegno di Roma, e stavamo a bere l'aperitivo in centro, me lo ritrovo aperto tra le mani e ha un sottotitolo che te lo raccomando Racconti tra cielo e terra.
Che poi quando lo cominci, ti accompagna.

Ecco io però ho preferito leggerlo tra la gente. Ieri prima di cena, oggi mentre Sara faceva la gara di pattini. Perché sarebbe stato troppo libro e poco guida se lo avessi ascoltato nel silenzio più totale.
Perché di silenzio ce n'è già tanto nella scrittura di Fabry. E' una scrittura che spesso sfrutta la ridondanza e ti riporta all'inizio. Perché pensare è soffermarsi all'interno di un cerchio.

E' una scrittura che ti trattiene nelle immagini. Ora, quelle dei suoi racconti, mi affollano ancora la mente. E come hanno fatto da riflessi all'io narrante che nei vissuti narrati - impietosi, marginali, tragici, sublimi, esemplari - riconosce e costruisce, volta per volta, parti di sé, così ora mi rispecchio, attraverso quelle immagini, in quei simulacri che ci abitano. E' un gioco di specchi che continua: nella sofferenza delle storie narrate, si snoda il racconto e si costruisce uno sguardo, quello dell'autore del libro, che racconta di sé, narrando degli altri. Allo stesso modo il lettore può continuare il gioco, può rincorrere e rimemorare i propri simulacri, le proprie immagini mnestiche, riflettendosi in ciò che il testo gli suggerisce.

Io non ho intravvisto l'eternità - perché la mia cultura è differente - ma ho sentito il pneuma, lo spiritus, che ogni cosa lega. E attraverso i racconti di Fabry ho rivissuto quei momenti di felicità leggera che accompagnano le sere di maggio della mia infanzia. Davanti al sagrato della chiesa, a correre e a giocare. Una felicità di cui sono capaci i bambini. E che può sentire chi schiude la propria anima oltre ciò che è visibile. Perciò sì, ascoltando questi racconti ho sfiorato un mondo e, senza arrivare al cielo, ho provato quantomeno a sollevarmi da terra e a leggere nelle storie altrui i riflessi delle mie. Un esercizio di sospensione tra terra e cielo che fa bene. Fa bene davvero.

grazie Fabry

domenica 25 maggio 2008

Recensione di Giovanni Nuscis

(da Transito senza catene)
Vulcani

Turi era un ragazzo esile, ma con un sacco di idee. Nella vita avrebbe fatto qualcosa di grande, come l’Etna, che torreggiava sulle strade del suo paesone. La montagna lo ispirava: si sentiva nelle viscere la stessa potenza, che poteva fare di lui un uomo fortunato, uno di quei ricchi con il Rolex d’oro che aveva visto nelle pagine dei giornali per femmine letti e riletti dalla madre e la sorella.
Passava le giornate a pensare al futuro: gli stavano stretti i banchi della scuola e anche i giochi con quei babbazzi dei suoi coetanei. Lui guardava i grandi, non quelli del paese: quelli visti in tivù, che entravano in banca, o avevano una segretaria, o dettavano legge nei cantieri.
Man mano che cresceva, lavorando tanto e lavorando bene, si accorse di avere un dono naturale: quello di rimettere in piedi le imprese agonizzanti: le portava in alto in poco tempo, dopo di che mollava tutto e ripartiva con un nuovo moribondo.
La sua vita era una corsa, aveva un amore sviscerato per le auto di lusso. Si sentiva inebriato quando accarezzava il volante di una Ferrari o di una Jaguar, ma non per esibizionismo da strapazzo; lui non era come i compaesani arricchiti che strombazzavano il clacson esibendo benessere e dentiere. Doveva solo dimostrare a se stesso che il ragazzo con un sacco di idee aveva davvero la potenza del vulcano. Entrò nel mondo del cinema. Tutto quello che toccava diventava oro.
Più lo conoscevo, Turi, più la sua esistenza mi sembrava l’opposto della mia. Anche la mia vita bruciava ogni energia con la potenza del vulcano, ma in un moto verso il basso, verso il fondo, alle radici. I miei sogni erano altri, facevano un percorso inverso, invisibile al mondo; non sapevo che avrei fatto la scelta di entrare in seminario, ma il mio desiderio aveva la stessa intensità di Turi, eravamo due vulcani contrapposti, lui con i lapilli lanciati verso il cielo, io con la lava che scendeva a valle con una marcia altrettanto irresistibile.
Turi era diabetico, ma cucinava da dio. La sua pasta alla Norma, con le melanzane siciliane, non aveva uguali. Alla faccia del diabete, non disdegnava nemmeno la granita e la brioche delle dieci del mattino. Ma era il pesce spada il suo capolavoro: nessuno ne conosceva il segreto, e il piatto gli usciva dalle mani come per miracolo.
A Taormina veniva incontro a me e don Mario in costume da bagno e ciabattine, col suo passo pesante e ondulatorio, la pancetta e gli occhiali da sole: sembrava un cineasta americano di quelli che mettono in mostra sui giornali, con il Rolex d’oro al polso.
Turi diceva che i preti erano egoisti, mentre lui rischiava tutto mettendo in gioco quello che aveva accumulato. “E perché, noi?” volevo dirgli. Ma a Turi, su questo punto, era inutile rispondere, stava già parlando d’altro.
A Roma si era fatto costruire una casa da uno degli architetti italiani più famosi: era in collina, e voleva forse riprodurre un sogno di potenza lavica e lapillica, un simbolo di vita che si espande, e non, diceva lui, come la vita dei preti che si conserva e preserva – e io volevo dirgli: “La nostra?”, perché già m’identificavo con don Mario – ma lui parlava d’altro.
Ne aveva fatta di strada, Turi. Ora correva sulla Taormina-Messina con la sua Jaguar fiammante che divorava i chilometri come Scilla e Cariddi i marinai. Curva dopo curva inseguiva il suo sogno di ragazzo esile con un sacco di idee, anche adesso che pesava cento chili e con gli occhiali da sole sembrava un cineasta americano.
Fu del tutto imprevisto il meccanismo inceppato del volante, l’imprecazione gli uscì naturalmente, come un sussulto del vulcano, e l’ultima immagine, prima dello schianto, fu quella della sua montagna. Rimase riverso sul volante, come un eroe morto in battaglia.
L’ambulanza arrivò dopo mezz’ora; nessuno ritrovò il suo Rolex d’oro, l’ultimo dono di una vita da grandi, vissuta sull’orlo del cratere.

Fabrizio Centofanti

Guida pratica all’eternità.

Racconti fra cielo e terra.

Effatà editrice, 2008
Prefazione di Remo Bassini
Postfazione di Riccardo Ferrazzi

***

“I libri che preferisco – dice l’editore, protagonista del primo testo della Guida - sono quelli di racconti: leggeri e discreti, passano quasi inosservati ma gettano semi di storie che qualcuno, passando, raccoglie e fa fruttare altrove, in una catena interminabile”. Fabrizio Centofanti, laureato in lettere moderne e sacerdote diocesano, è, per l’appunto, un “seminatore” o, meglio, un seminatore col sole che tramonta, secondo il titolo del quadro di Van Gogh scelto per la copertina del libro. A questa considerazione si perviene dopo aver letto i suoi diciannove racconti e, in particolare, Ventuno dicembre 2012, nel quale si può leggere, in filigrana, un drammatico tramonto di civiltà. Fabrizio Centofanti è un uomo che veglia: sul mondo letterario - di cui fa parte con le sue pubblicazioni di poesia, narrativa e saggistica e con la gestione di uno dei blog collettivi più attivi e visitati in Italia – e sulla comunità parrocchiale affidata alle sue cure. E non solo, crediamo. Ci siamo conosciuti in rete in occasione di un suo commento nel mio blog; l'intervento precedente era di un anonimo firmatosi 666; credo poco alla casualità degli incontri e degli eventi, penso che la capacità di ascolto e percezione sia un grande dono, chiaramente ravvisabile nelle pagine del libro: “Quando mi chiedono di leggere il futuro, mi trovo in imbarazzo. Non mi piace sentirmi un fenomeno perché so che non ho meriti […]” (Dialoghi fra la terra e il cielo); “la sacrestia è la pedana di lancio, con le sue pareti spoglie, le ragnatele che pendono dall’alto. Lì sei ancora uomo, con le incertezze e le paure. Dopo, quando superi l’archetto, non sei più tu a guidare il gioco.” (Levate la pietra); “Il 21 dicembre del 2012 ci sarà un cataclisma di proporzioni gigantesche che spazzerà via una parte dell’umanità: ne ho la certezza, non chiedetemi di svelarvi la serie di coincidenze che mi ha portato a sapere” (Ventuno dicembre 2012).
Un intervento critico non dovrebbe soffermarsi più di tanto sulla biografia di chi scrive, per parlare invece dell’opera, dei suoi contenuti e della forma; sento però che questo lavoro lo esige, poiché a raccontare non è solo un artista; e perché il libro non è soltanto un’opera letteraria, e il titolo, Guida pratica all’eternità, parrebbe confermarlo.
Dopo la lettura dei primi racconti ci sovvengono alcune voci note: “descrivi il tuo villaggio e sarai universale” (Tolstoi), “parla solo di ciò che conosci” (S. King), “descrivi e non fare il furbo” (Puskin). Ebbene, l’autore, queste voci – e non solo queste - sembra averle ascoltate tutte. Il villaggio è la parrocchia. Le persone che ci vivono o ci gravitano sono i protagonisti di queste storie spesso disperate. L’esattezza, la leggerezza e la rapidità calviniane nel descrivere sono qualità evidenti di questa scrittura.
Le storie sono percorse da pensieri, sentimenti ed esperienze di vita vissuta. La parrocchia è il luogo dove molte di esse si svolgono: nel rito di una messa (Levate la pietra) o nel porto/crocevia della canonica, approdo di ladri, vandali, incendiari, barboni, suore, tossicodipendenti, prostitute: umanità assai cara ai due Fabrizi (al Nostro e al De Andrè).
Nei racconti è spesso presente un personaggio che subito intuiamo significativo per l’autore, don Mario Torregrossa (“fondatore del Centro di formazione giovanile Madonna di Loreto-Casa della Pace, in Roma”); egli compare nelle storie come compagno di viaggio – pure lui in prima linea – e come interlocutore, e testimone; ma anche, drammaticamente, come protagonista di un atto di violenza per lui quasi fatale, quando gli dettero fuoco e stette per mesi in rianimazione, come si racconta ne La bestemmia soffocata. Un altro bel racconto, in forma epistolare, è dedicato a Sante Bernardi la cui vicenda umana, per i riflessi nel sistema sanitario, ha visto coinvolte le massime istituzioni nazionali (Lettera di Natale – a un amico malato di SLA).
Storie, sempre, comunque, emblematiche quelle che Fabrizio Centofanti ci racconta; talvolta assai toccanti, e capaci di lasciare un segno forte. Storie scritte con sapiente semplicità, affidandosi “alla maestra dei poveri, la vita, con le sue aule scalcinate, le lezioni elementari ma piene di una incontrovertibile saggezza.”

Giovanni Nuscis

lunedì 12 maggio 2008

L'uomo tutto intero, di Elena F. Ricciardi

“Il Mistero non è mistero provvisoriamente. L’Altro è Altro per sempre. Se cessasse di esserlo, come amarlo in assoluto?”
“Dio è un eccesso di amore ma non si guarda amare”.
(Francois Varillon, L’umiltà di Dio)

Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9)

Che Fabrizio Centofanti scriva bene non lo dico io, lo dicono le pagine di questo libro di racconti, distese e intricate come la migliore partitura contrappuntistica baciata dal miracolo, dal fuoco della visione/ispirazione che non è mai altro dalla vita in sé così come sgorga dal tempo e dalla storia pur provenendo da chissà quali mondi dell’altrove. Lo stile è piano, limpido, preciso fino al millimetrico dettaglio di una virgola su cui posare per un momento il fiato e riprendere, affondandovi gli occhi fino nei recessi più profondi del cuore, la lettura.
Non avventuratevi fra queste pagine se non siete pronti ad affrontare il fuoco di una passione dirompente e confessata: “Anche la mia vita bruciava ogni energia con la potenza del vulcano, ma in un moto verso il basso, verso il fondo, alle radici“; eppure trattenuta, come una vela opposta al vento che la gonfia allo spasmo, sempre sull’orlo dello strappo. Non avventuratevi in questa molteplice storia se la vostra immagine della fede corrisponde ai santini che si vendono fuori dei santuari. Nel caso, però, voleste conoscere un altro mondo, un altro modo, un altro passo sulle orme dell’umano allora questo è il libro che forse attendevate da tempo.
L’autore ha metabolizzato bene la lezione del suo dichiarato maestro, Italo Calvino: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità: “La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare con i suoi mezzi specifici” (da Lezioni Americane). Valori e qualità che avrebbe voluto traghettare nel nuovo millennio, le ritroviamo, in uno stile tutto personale, in queste brevi e intense pagine. Anche Fabrizio crede che ci siano cose che solo la letteratura può dare, del resto è un profondo conoscitore dei Vangeli, che sono in prima battuta una narrazione, una storia, il racconto di una vita intessuta di storie fra le più diverse ed è per questo forse che non pensa a Calvino mentre il ticchettio della tastiera accompagna il dipanarsi dei suoi racconti. Calvino è la trasparenza dello stile e la domanda ribattuta e insistita su quale sia il crinale giusto della vita e se la verità non stia per caso fra le pieghe, negli interstizi delle cose e delle storie, sull’orlo del confine, mai definito in modo netto, della luce e dell’ombra: “Chissà come sarebbe stata la mia vita se avessi proseguito nell’altra direzione, avrei conosciuto il rovescio di tutto quello che successe“, perché la realtà non è lo stesso della verità. La verità è una mentre il reale è molteplice come molteplice è l’interpretazione di sé e di coloro che ci vengono incontro, come un infinito gioco degli specchi in cui spesso “Tu sei me” perché davvero in questa storia terribile e bellissima nulla di umano è lasciato al margine. “Parlavamo dei desideri opposti che sentiva combattersi dentro come due pugili indomabili [...] Filippo mi guardava: le nostre storie s’incrociavano come i fari sfreccianti sulla strada, sarebbe bastato un niente per uno scontro frontale“, ma la trama di queste storie, di questa vita che, come l’altra, incontra molteplici storie, è intessuta di altri fili, di altre trame, di altri nodi stretti all’ordito di una risposta data e ricevuta, al telaio di un unico fatto certo, sebbene inspiegabile: la vocazione, la risposta a una domanda inaudita, alla proposta espressa da quel silenzio che abita il cuore di chi cerca: ” Don Mario non raccontava mai dei suoi eroismi, ero io il testimone di vicende al limite delle possibilità umane e se ora scrivo queste note è perché sia chiaro che l’uomo non è solo malavita e prostituzione d’ogni genere, ma anche lunghe notti di emorragie intestinali per portare i soldi necessari a un povero Cristo“. E allora gli uomini e le donne di questa storia unica fatta di storie che si incontrano per provvidenza o destino tutte in un punto sperduto della periferia romana, stanno tutti, ciascuno col suo carico di vita e di-sperata-speranza, dentro una domanda che diventa ascolto, la domanda che ciascuno si sente fare quando incontra il prete della storia : “Come stai?“.
Anche il lettore si sente interpellato: “Come stai?”
Si, perché non possiamo incontrare suor Luigia, Agatino, il barbone,Turi, Antonio, il drogato, la prostituta, l’ombra del piromane che bruciò don Mario e tutti i colori perseguitati dall’ombra, eppure sempre alla ricerca della luce di cui questo libro è fatto, senza sentirci parte con essi, senza sentire l’esigenza di dare una risposta, senza percepire nel profondo che quella pietra che così spesso ci grava sul cuore, piano piano si scioglie e quel freddo nel quale ci nascondiamo come embrioni congelati in attesa di vedere la luce, lascia la sua presa mortale e si trasforma in un ventre materno e caldo, in un abbraccio capace di accogliere l’uomo tutto intero anche quando non riusciamo a capire come si possa amare così:
“Quando don Mario mi chiese come stai?, mi accorsi non subito, diciamo lentamente, ma sempre di più, che le dieci Ceres erano un ricordo del passato, di fronte agli occhi aperti di don Mario, aperti in tutti i sensi, come quelli di Anna, come quelli di tutte le creature che abbattono l’ultimo steccato e passano avanti in quel regno dove si entra senza trucchi, anche se sei un drogato o una puttana, anche se la notte, con la sua faccia scura, ti guarda con uno strano senso di pietà”.

Elena F. Ricciardi

Postfazione di Riccardo Ferrazzi

Stanno per essere pubblicati diciannove racconti di Fabrizio Centofanti (Guida pratica all’eternità. Racconti fra cielo e terra). Per leggerli ho impiegato il tempo che di solito si dedica a un romanzo, perché non c’è modo di leggerli senza mettersi a pensare. Uno legge il singolo racconto e si accorge che al di sotto sta prendendo forma qualcos’altro. A dispetto della sua apparenza sparpagliata, il libro ha una architettura, un senso e la giusta dose di furberia autoriale.
Tanto per cominciare: l’aspetto formale. Un pignolo potrebbe sostenere che non di racconti si tratta, ma di bozzetti nei quali viene schizzata un’impressione, un rapido imprinting di persone che restano pur sempre impenetrabili, chiuse nella loro incomunicabilità. Qualcun altro potrebbe lamentare la quasi totale assenza di azione: qui non “succedono cose”, ci sono soltanto dei “gesti” che dovrebbero gettar luce su una personalità (e invece, più si cercano significati e più ci si addentra nell’ombra).
Ma sarebbero critiche senza senso: la verità è che ciascuno di questi brevi racconti avrebbe potuto prendere forma di poesia. Letti in questa prospettiva, come se fossero una raccolta di liriche, i diciannove racconti, anche se tracciano separate immagini di esseri umani piegati dalle durezze di una vita che non regala niente, sono tenuti insieme dallo stile, essenziale, che rimanda a un elemento unificante. Quale?
Avviciniamoci gradatamente alla sostanza: Fabrizio Centofanti è un sacerdote, ma, grazie a Dio, non ci riempie le orecchie con quella oratoria melliflua e democristiana che fa venir voglia di correre a prendere la tessera del PCUS. Lui parla di Antonio, Franca, Agatino e Luigia, e mentre li racconta non gliene frega niente di insegnare qualcosa, così come non cerca di dare interpretazioni: Antonio, Franca e compagnia sono esseri umani che suscitano curiosità, sensazioni, sentimenti. Non sono pecore che il pastore si riserva di capire per svelarle a loro stesse. Il pastore non pretende di intrufolarsi nel loro mistero. Non pretende neanche di essere pastore, neanche di essere amico. Cerca soltanto di essere utile.
Perché? Per crogiolarsi al calore di una gratitudine più o meno sollecitata? No, don Fabrizio sa che non c’è gratitudine a questo mondo. Chi dà ciò che ha è considerato fesso; chi dà ciò che non ha è considerato ladro. Tu fai del bene e gli altri se ne approfittano; tu non fai male a nessuno e loro ti danno fuoco.
E allora che senso ha questa voglia di essere utile agli ingrati? Forse possiamo farcene un’idea immaginando un cataclisma. Non la fine del mondo, non il Giudizio universale, ma il più modesto giudizio personale che noi stessi prima o poi dovremo pur dare. Don Fabrizio immagina di conoscere la data precisa in cui il cataclisma avverrà, e si immagina lì, in attesa di un’onda che lo spazzerà via. Non pensa a fiumi di pece bollente o a cori angelici: pensa a cosa farà nei pochi attimi in cui potrà ancora pensare.

“Di fronte allo scatenarsi dell’evento, emergono domande prevedibili: che ho fatto nella vita?… Vengono in mente situazioni in cui avrei potuto ascoltare, intervenire, occuparmi di qualcuno o di qualcosa. Ma la pigrizia, la fretta, l’ambizione, hanno messo impedimenti invalicabili, accumulato strati su strati di opere inevase, che adesso si rovesciano sulla mia impotenza improvvisamente evidente, insuperabile.”

C’è un’unica risposta, ed è la stessa scandalosa risposta che duemila anni fa portò un altro uomo a morire come un criminale: non si ama per essere amati, si ama e basta, perché l’amore si alimenta nel dare, non nel ricevere.

Prefazione di Remo Bassini


Pare di vederli, leggendo. Vanno a capo chino, hanno lo sguardo di chi è solo, disperato, affamato. Sono i personaggi-protagonisti di questi racconti. Sono donne e uomini piccoli ma ingombranti, da buttare nel cassonetto. Da rimuovere. Perché scomodi, a volte puzzano. Andate via, via.
Siete gli “ultimi”, accontentatevi del regno dei cieli.
Non c’è spazio per voi in questo tempo di usa e getta, di computer dell’ultima generazione e di generazioni cresciute tra computer, line e la tivù “dei belli” e dell’effimero.

Ha fatto un lavoro storico e narrativo, don Fabrizio Centofanti, con questi frammenti di disperazioni e speranza.
Il lavoro storico - ma che compete (o così dovrebbe) a ogni intellettuale - è stato quello di annotare fatti e persone, cercandone il cuore, magari nascosto da un cappotto ricuperato chissà dove. Sono storie, queste, più vere del vero, che fanno male anche.
Sono microstorie - che tanto piacerebbero alla scuola delle Annales di Le Goff - che Fabrizio Centofanti ha scritto con tempi e ritmi di una narrazione a volte secca e dura, a volte, invece, vicina al lirismo.
Non ha usato la fantasia, Fabrizio Centofanti, ché la fantasia in certi casi depista e distorce. Ha usato i suoi ricordi, i suoi appunti, perché la memoria, si sa, è capricciosa. Ed eccoli, ora, questi racconti toccanti, che arrivano al lettore, lo commuovono, lo fanno pensare. Ci fanno pensare: ai disperati, certo, ma anche alla speranza; e il trait d’union tra questi due aspetti si chiama don Mario, la cui figura, sebbene mite, caritatevole, francescana, si staglia prepotente in questo mondo, sì, mondo di lacrime, ché è questa la dicitura adatta, giusta.

E ha saputo fondere, Fabrizio Centofanti, in queste sue scritture ri-pescate dalla memoria, le sue due anime: quella di chi vive pensando al Vangelo come un’altra Storia di disperazione e speranza da mettere in pratica, e quella dell’umile testimone che trascrive e racconta. Sono venuti fuori, da questa doppia anima, questi racconti: che trasudano umanità e che ci insegnano. Ci insegnano che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” non sono solo versi di una canzone di successo.
Perché la dignità “degli ultimi” sia per davvero. E non parole vuote, dell’usa e getta.