giovedì 13 novembre 2008

Roberto Rossi Testa

Appunti per una presentazione di Guida pratica all'eternità (racconti) di Fabrizio Centofanti

di Roberto Rossi Testa

Non entro in questa sede in dettagliate considerazioni numerologiche, tanto più facili e consuete per la poesia ma possibili anche per la prosa, pensiamo soltanto agli sterminati studi di Ivan Panin sulla Bibbia.

Mi limito a osservare che i racconti di questo libro sono 19 (12 + 7) , ai quali l'autore sente il bisogno di aggiungere tre “quadretti” pubblicati sul blog letterario Nazione Indiana, completando così il numero degli arcani maggiori, forse in omaggio a Calvino, di cui è studioso e su cui ha anche scritto un bel libro. Inoltre i 19 racconti sono partizionabili anche in 3 + 16, dove i primi 3 alludono direttamente alla sua persona e all'inizio della sua missione, a mo' di prolegomeni, mentre gli altri 16 sono spaccati d'esistenza del suo ministero pastorale.
Nel primo racconto, L'editore, omaggio esplicito al suo Calvino, l'autore appunto si sdoppia nella figura di un editore. Editore e non autore, a sottolineare ciò che i racconti seguenti saranno: reperti, regesti d'incontri, ai quali egli presta la sua opera affinché possano diffondersi, ma che in certo qual modo e misura trova già come fatti e formati.
Nel secondo racconto, Scacchiere, l'omaggio ancor più esplicito e personale è a Rebora, il secondo suo autore che completa il suo curriculum (almeno quello ufficiale) prima della vocazione religiosa. In esso si parla della ricerca della libertà, ma non certo nel senso della libertà di fare ciò che gratifica, bensì del processo di liberazione dalle lusinghe, della vittoria su di esse, al fine di dare scacco matto all'Avversario. È chiaro che se l'autore pone in limine con tanta forza la questione dell'identificazione è perché dentro di lui, lo dico non come accusa ma con partecipe affetto, la battaglia è lungi dall'essere vinta: la vittoria si può conseguire solo vivendo, e vivendo con scialo di se stessi.

Come si dirà nel terzo racconto, integrare i vari momenti della propria esistenza, le proprie parti in contrasto, è cosa che richiede tempi eterni, dal momento che si affrontano traumi la cui guarigione richiede nientedimeno che l'eternità.

Di passaggio si nota che nei suoi racconti l'autore, esattamente come Dante e come ogni altro autore che usa se stesso come personaggio, è lui e non è lui al tempo stesso, e forse è meno lui dove e quanto più sembri essere proprio lui. Questa regola ha poche eccezioni, un esempio delle quali potrebbe essere il libro “L'incoronazione” di Sergio Quinzio, ma qui il discorso si farebbe delicatissimo, aleatorio e porterebbe troppo lontano. Diciamo solo che qui sta il discrimine fra chi fa “e” intende fare letteratura e chi fa “o” intende fare qualchecos'altro.
Nel terzo racconto, Dialoghi fra la terra e il cielo, l'idea di fondo è il prezzo che si paga per (tentare di) essere di giovamento agli altri. Chi veramente giova agli altri non può giovare a se stesso, anzi almeno dal punto di vista del mondo prepara la propria rovina. Non si sceglie di avere certi doni, si può al massimo e solo in parte scegliere se e come usarli. Dal momento di tale scelta la vita è segnata, e come si diceva all'inizio da questo punto si passa senz'altro alla seconda parte dell'itinerario esistenziale dell'autore e/o del suo personaggio.
Nel quarto racconto, Il gioco dell'impiccato, il problema posto al centro è quello dell'identificazione, del rispecchiamento. Il vivo si specchia nel morto, un morto appeso e pensoso, altro oggettivo omaggio alle figure dei tarocchi e quindi forse a Calvino. Ciò che alla fine distingue il vivo dal morto è la tazzina di caffè che un sacerdote porge al vivo. Questo sacerdote fuori campo, di cui in campo entra solo una mano, e forse un pezzo di braccio, è dunque il motore dell'azione o almeno sua causa materiale, come accade nei quadri dove il pittore si rappresenta piccolo e modesto in un discreto angolo del quadro. La riconoscibilità comunque è assicurata da un elemento infimo e triviale soltanto ad una considerazione poco attenta. Si tratta infatti dell'odore, e l'odore è ciò che più ci rappresenta e caratterizza. L'odore ci annuncia prima del nostro arrivo e anche quando ce ne andiamo lasciamo tracce persistenti di calore e odore. Ma mentre il calore lo registrano solo certi animali e certe moderne apparecchiature, l'odore lo sentono e magari lo riconoscono persino i nasi più civilizzati. Elemento dunque anche imbarazzante di fisicità, quella fisicità che nel diciottesimo racconto verrà collegata direttamente alla pienezza della persona umana ed all'adempimento del suo destino.

Nel quinto racconto, Canonica paradiso, il cui titolo fa il verso a un film famoso, anche a testimonianza dell'amore dell'autore per il cinema, che bene risalterà in particolare nell'ottavo racconto, siamo ormai inoltrati nel tunnel, dal barbone al drogato. E dallo sfondo pian piano vengono alla ribalta le “tonache nere”, dal prete bruciato all'italianista mancato (e quindi metaforicamente bruciato anche lui), non fosse che per il fatto che “non c'è nessuno che si faccia infinocchiare come loro” (ecco la debolezza che si rovescia in forza, la stoltezza che si muta in saggezza). I Giusti della tradizione chassidica e sufi sono così interpretati: “Se gli infelici della terra non si uniscono per far saltare il pianeta è perché qualcuno si fa infinocchiare tutti i giorni senza lamentarsi”; dove, da parte del personaggio che pronuncia tale battuta, non si sa se siano maggiori l'irrisione e il rimprovero o una magari inconscia ammirazione.
Nel sesto racconto, Mani, si intravede per fotogrammi staccati ciò che ha fatto diventare una ancora generica vocazione una speranza adulta, una sfida in cui Dio è assecondato con dedizione piena ma anche continuamente richiesto di pronunciarsi in modo esplicito. L'inizio vero di questo cammino è nel momento in cui i piedi non poggiano più su terreno solido, la strada si è trasformata in altro, ma il camminatore non s'impressiona né tantomeno si ferma o torna indietro. Nell'incontro con un fratello e padre spirituale, nelle volute dei fumo della sigaretta che questi tiene in mano, il camminante trova i migliori motivi per fermarsi un istante e poi riprendere il cammino: trova tutti i motivi, per sé e per il mondo, del quale quel fumo nel suo flottare sembra contenere e reggere tutto il bene e tutto il male. Quel fumo è anche prefigurazione delle fiamme che avvolgeranno la sua guida spirituale e che lambiranno anche lui, passandogli il testimone di una prova che non finisce se non con la vita stessa. Ed il discepolo dimostra di aver tutti i numeri per poterla superare perché, pur nell'amore immenso che lo anima, non rinuncia a chiamar le cose con il loro nome, definendo “assassino” l'infelice incendiario. La confusione delle cose e dei fatti parte dalla confusione dei nomi e delle parole, che porta inevitabilmente alla confusione dei concetti che descrivono le cose e narrano i fatti. Solo riportando ordine nell'espressione potremo sperare di riportare ordine, se non proprio nel mondo, almeno nelle coscienze.

Il settimo e ottavo racconto, Agatino e Come un film, sono legati dal filo conduttore del cinema, come già detto una delle passioni culturali dell'autore: il protagonista del primo è un personaggio da film, con quella sua tenuta che ricorda quelle dei personaggi del Far West, il secondo nel cinema addirittura ci lavora, fino al dramma che sconvolge la sua vita. Entrambi sono dei drop out per i quali l'unico lieto fine possibile è quello che si prolunga oltre l'esistenza terrena, anticipato però dai gesti d'amore di don Mario, il maestro dell'autore, che dimostra ai due la sua costante attenzione e, nei momenti cruciali, “pre”dilezione, malgrado il loro modo di porsi, che nel primo sembra solo espressione del suo “essere fuori”, mentre nel secondo si sostanzia in sfide che sono poi delle richieste d'aiuto: quelle richieste che solo pochissimi sanno e vogliono capire e soddisfare.
Leggendo il nono racconto, Messaggi, non si può fare a meno di pensare alla miracolosa liberazione dal carcere di Pietro, anche se qui non di liberazione si tratta ma dell'insperato successo del tentativo del protagonista di mettersi in comunicazione con i familiari, mentre le fauci della prigione si stanno chiudendo su di lui in un modo che viene insistentemente presentato come diabolico; e certo questo episodio non pare meno miracoloso di quello narrato nel capitolo 12 degli Atti degli Apostoli.
Nel decimo racconto, Pugili allo specchio, c'è la lotta contro la droga per Filippo, contro la birra per il (futuro?) sacerdote. Certo, non ogni combattimento è buon combattimento in senso cristiano, ma almeno chi combatte non sarà vomitato come tiepido. Siamo ancora di fronte a una storia di (auto)riconoscimento, che non può (più) avvenire se non rispecchiandosi, come già nei precedenti testi la comunicazione si avvia soltanto sentendo empaticamente la vita e i movimenti dell'altro. Ciò che fin qui emerge è il problema della (auto)conoscenza, che non può verificarsi che mediante “l'altro conoscere”: conoscere Dio negli altri, gli altri in Dio. Due strade diverse per un processo che finisce per essere il medesimo, l'unico per il quale si può arrivare a conoscere (anche) se stessi. Nel rispecchiamento ci si conosce non solo attraverso quello che l'altro ci rimanda, ma andando oltre la superficie dello specchio, addentrandoci come in un'altra realtà che finiamo per conoscere come la pienezza della nostra, cosicché dalla conoscenza può nascere anche la riconoscenza .

Nell'undicesimo racconto, Antonio, ci sono delle interessanti suggestioni, più, che affermazioni esplicite, su che cosa sia e che cosa comporti un miracolo; a riprova, fra l'altro, di come la cultura dei libri, la meditazione e l'esperienza anche estrema del quotidiano nell'autore si fecondino e irrobusticano a vicenda in un crescendo continuo. Dunque: miracolo come evento raro ma naturale (naturale ma raro, e che per di più accade proprio al momento opportuno, come recita un midrash) o come irruzione di mirum e tremendum, non tanto da invocare, ma dal quale più che altro guardarsi? In questo racconto abbiamo un miracolo che prende alla gola a tradimento e sembra (dico sembra) chiedere un tributo di sangue; in mancanza del quale il miracolo letteralmente si sgonfia e va, sempre letteralmente, “a spaventare qualcon altro”. Oltre al tributo di sangue, ciò che davvero sembra propiziare il miracolo è u atto gratuito compiuto in spregio alla ragionevolezza, al calcolo delle probabilità; dopo di che il miracolo si verifica, certo non subito, ma dopo, e vivere nell'orizzonte del miracolo è vivere nella logica del “post hoc, propter hoc”, laddove sempre più spesso l'invocazione della casualità si svela come misera e miserabile superstizione scientista.
Nel dodicesimo racconto, La bestemmia soffocata, c'è Tito con la sua agorafobia, un uomo che disdegna i contatti con gli uomini perché li soffre e con le cose perché se ne sente legato, e cerca la leggerezza nel vuoto. Alla fine si capisce che sua non era che attesa, paura di mancare il solo appuntamento che contava, cosa che lo rendeva in fondo uguale a chi, per lo stesso scrupolo, faceva una vita in apparenza tanto diversa da lui.

Il baricentro del libro è nel Come stai? di don Mario, il prete bruciato, interrogativo non retorico che dà il titolo al tredicesimo racconto. È un “Come stai?” rivolto ai disperati che in qualche modo siamo tutti, un “Come stai?” che non chiede la risposta stereotipata “Bene, grazie, e tu? ”, ma si accontenta di sollevare il coperchio del vaso di Pandora dei guai altrui lasciando che il gran vento che se ne alza possa infine trovare sfogo e solo dopo di questo giustamente placarsi.

Nel quattordicesimo racconto, Vulcani, si assiste alla fine di un eroe sbagliato, che mi ha richiamato alla memoria quella del fratello aviatore della poesia di Brecht, per il difetto d'amore e comprensione che sottende, difetto che inesorabilmente riemerge e colpisce. Si può usare dell'energia del vulcano ma occorre sapere che esige sacrifici, se non in vita in morte, sempre che si sappia cogliere in tempo la differenza sottile.

Nel quindicesimo racconto, Pastorale, viene celebrata la potenza primigenia e tellurica del “vaffanculo”, espressione che molte volte e comunque in questo caso significa: “Ma ti rendi conto di quello che dici e di quello che fai? Ritorna in te, torna con noi!”, espressione dunque forte e severa di riprensione fraterna, che ovviamente non esclude il perdono per quella fondamentale ignoranza ma fissa dei paletti e mette in mora (condizioni che peraltro non aspettano che di farsi travolgere dall'amore). Questa espressione sboccata ma spesso ampiamente giustificabile è l'esatto contrario dell'imperversante “Fatti i cazzi tuoi” che, facendo le viste di celebrare l'onnipotenza degli individui, in realtà li confina nei loro deliri: negando persino l'esistenza di quelli comuni e facendosi “i cazzi suoi”, ognuno in realtà è murato in sé stesso, con l'unica compagnia dei propri demoni.

Al precedente si collega in modo stretto e diretto il sedicesimo racconto, Polvere, in cui si mostra come il cattivo carattere e le separatezze, forse più che differenze, vengano livellati dalla consapevolezza se non dall'accettazione del destino comune.

Nel diciassettesimo racconto, Lettera di Natale (a un amico malato di SLA), scrivendo a quest'amico che ha dentro e intorno a sé la difficoltà e la fragilità e di fronte la prospettiva della fine in modo certo più netto e deciso di quanto non accada alla generalità delle persone, l'autore dispiega i rassicuranti luoghi comuni dell'esistenza: il papà ha una mano forte che guida, la mamma è sempre pronta a difenderti; anche se a volte le cose vanno diversamente, nel ricordo almeno dovrebbero sempre essere così, l'ossequio all'archetipo è un'importante fonte di equilibrio. Ma anche al riparo dell'archetipo c'è qualcosa che sfugge, qualcosa che inquieta e spaventa come il Belfagor televisivo che spaventò i bambini della generazione di Centofanti , che è anche la mia. Ebbene, per questi conti che non tornano e inquietudini e spaventi non ci sono risposte né rimedi né conforti. C'è soltanto la speranza che nell'evidenza della circolarità cattiva dell'esperienza umana si manifesti all'improvviso uno squarcio da cui possa irrompere il Regno.

Il diciottesimo racconto, Levate la pietra, il cui titolo si riferisce all'episodio della resurrezione di Lazzaro ma che fa anche venire alla mente l'opposto ed analogo “Aprite la porta” di “Assassinio nella cattedrale”, è come una riflessione drammatizzata sul corpo mistico. Il sacerdote, superato il trampolino della sacrestia, non è più solo lui, pronuncia parole che gli vengono dettate, e lo stesso avviene al popolo cristiano quando prega e canta all'unisono. Ma, al contempo, nei giorni freddi la chiesa va riscaldata, altrimenti qualcuno potrebbe ammalarsi. Ci viene così ricordato che non siamo solamente spirito, che persino nella morte il distacco dal corpo (misero corpo, ma prefigurazione di quello glorioso), non è definitivo bensì provvisorio, nell'attesa della pienezza e della resurrezione.

Il diciannovesimo e ultimo racconto, 21 dicembre 2012, parla non della fine del mondo, sulla quale per il credente non sono possibili congetture e previsioni, ma della fine di questo nostro mondo presente. Fine alla quale il protagonista, con cui l'autore sembra ancor più che in altri casi confondersi, prega di non sopravvivere, qualora in essa la parte migliore del suo essere dovesse soccombere. Ora, a tale parte si possono dare nomi diversi, appartenenti tutti alla contingente storia individuale, però il suo nome vero è sempre “Amore”.

Così terminato, il libro si riapre per una breve appendice, per una terna di aggiunte, di chiose.

Nella prima, Una cosa ridicola, lo scrittore pare reclamare i propri diritti: anche le cose peggiori viste sotto una certa luce appaiono se non buone almeno sorprendenti, quasi delle perle barocche. Così la porta sfondata della canonica svaligiata diventa “un saluto un po' troppo entusiasta, un abbraccio esagerato”, dove tutto rimanda però, a filo di paradosso, al suo ubi consistam di testimonianza e di fede.
Ma il vero saluto e la vera cosa ridicola sono lo strano saluto del sagrestano disabile (“diversamente abile” dice l'autore), “Eccolo, va'!” al prete che si accinge a dire Messa, e che solo da ultimo si rivelano essere il saluto di Dio: cosa ridicola dunque, cosa da nulla, e infinitamente preziosa.

La seconda aggiunta, La forma perfetta, dibatte la questione della forma e del contenuto con accenti emotivi e polemici, ai limiti della ribellione: “Celebrare. L'idea sarebbe quella del silenzio”, “La forma perfetta è la faccia dei poveri”, fino alla domanda quasi gridata: “Che c'entra un prete con metrica, retorica e stilistica?”. Ma l'autore in tutte le sue determinazioni umane sa bene che con quelle cose un prete c'entra moltissimo. Perché un prete, come si potrebbe dire oggi, è (anche) un “operatore liturgico”, e la liturgia è ciò che opera la trasformazione, per usare il linguaggio quotidiano, delle forme in sostanza, in quella sostanza attinta la quale non ci sarà più ritardo né attesa, essendo ogni cosa pervenuta al suo tempo, luogo e modo di manifestazione appropriato.

Con la terza aggiunta, Il canto del gallo, il libro finisce veramente, ma con un topos classico, appunto quello del canto del gallo, che in realtà lo riaffaccia a infinite aperture e sorprese. Da pressanti domande sulla natura della vocazione e sulla comunicabilità dell'esperienza interiore scaturisce l'intuizione che la chiamata non è altro che la scoperta della reale esistenza del mondo, nel quale, e lo si capisce bene quando si avverte e si segue il flusso dello spirito, tutto è grazia. E sulle parole dell'umile e altissimo curato di Bernanos l'autore e il lettore fanno il gesto di prendere reciproco congedo, ma entrambi sanno che al gesto non farà seguito l'atto.

Per terminare, una confessione personale. Mi ero ripromesso, dovendo parlare del lavoro letterario di don Centofanti, di limitarmi strettamente alla letteratura, alla letterarietà dell'opera. Strada facendo mi sono reso conto che non era possibile, anzi, che non “mi” era possibile. In difesa degli interessi dell'arte, della sua pretesa purezza, ho sempre avuto un'intransigente diffidenza verso gli autori che affrontavano i problemi sociali o addirittura le tragedie collettive del loro presente; e parlo di autori fra i più grandi. Ma la conoscenza prima, e poi il rapporto quotidiano con don Centofanti mi hanno impedito di mantenere più a lungo il mio vecchio atteggiamento. Ho dovuto constatare l'assoluta sincerità e abnegazione del suo lavoro sociale e pastorale, l'esatto contrario di un mero investimento per racimolare agganci e fama; ed ho soprattutto dovuto riconoscere che tale pratica non indeboliva né sviliva la sua arte, ma la fortificava fornendole un orientamento costante, indipendente dagli alti e bassi dell'io e dell'esistenza quotidiana. Insomma, devo confessare che il contatto con quest'uomo, questo sacerdote, questo scrittore, mi ha molto cambiato, come penso che possa cambiare almeno qualcuno di voi.