lunedì 23 febbraio 2009

Stefania Mola

Caro Fabrizio,
mi ricordi alcune persone straordinarie che ho avuto la fortuna di incontrare in passato. Alcuni “don” con le maniche della camicia arrotolate, il sudore sulla fronte, le mani ruvide, i modi pragmatici e senza fronzoli e le parole giuste. Guardati con sospetto tanto dalle gerarchie terrene quanto dagli ipocriti della porta accanto.

Perché non si è un “don” come tanti quando ci si sporca ogni giorno le mani nella vita a margine, e non a chiacchiere.

È bello scoprire che tu sia riuscito a toccare anche chi – diversamente da te – ha scelto un cammino guidato da altri dèi. La storia, la scienza, la filosofia, la politica, l’indifferenza… cose che ci appartengono – è vero – ma a cui scegliamo o meno di appartenere. Pazienza se qualcuno non riesce a intravedere l’eternità nelle tue pagine; tu hai toccato le sue corde. Perché le storie che racconti sono la tua storia, e nelle persone che hai incontrato la tua storia si specchia, e si riconosce.

Credo anche che a quell’eternità che il lettore cerca tra le righe tu abbia voluto dare l’immagine bella e struggente del “salotto buono” – che mi ha fatto venire gli occhi lucidi – mentre scrivi delle smisurate possibilità dell’infanzia (il lutto bianco che tutti portiamo dentro). «Quel salotto buono era il paradiso: un luogo che concentrava tutte le speranze, le nostre povere speranze di bambini, felici per niente, sicuri dell’amore».

E penso, anche, che la forza dei tuoi racconti, al di là della tua scrittura impeccabile, degli echi e dei rimandi “culturali”, sia nella trasgressione. Guardiamoci intorno: pare che l’unica via (che ci costruiamo con le nostre mani, peraltro) sia quella distruttiva che approda alla disperazione e non prevede redenzione. Tu dimostri che la disperazione non è il punto d’arrivo, ma quello di partenza.

Di questi tempi è trasgressivo esserne convinti. Ma è ciò che fa la differenza.

[da qui]