lunedì 23 febbraio 2009

Stefania Mola

Caro Fabrizio,
mi ricordi alcune persone straordinarie che ho avuto la fortuna di incontrare in passato. Alcuni “don” con le maniche della camicia arrotolate, il sudore sulla fronte, le mani ruvide, i modi pragmatici e senza fronzoli e le parole giuste. Guardati con sospetto tanto dalle gerarchie terrene quanto dagli ipocriti della porta accanto.

Perché non si è un “don” come tanti quando ci si sporca ogni giorno le mani nella vita a margine, e non a chiacchiere.

È bello scoprire che tu sia riuscito a toccare anche chi – diversamente da te – ha scelto un cammino guidato da altri dèi. La storia, la scienza, la filosofia, la politica, l’indifferenza… cose che ci appartengono – è vero – ma a cui scegliamo o meno di appartenere. Pazienza se qualcuno non riesce a intravedere l’eternità nelle tue pagine; tu hai toccato le sue corde. Perché le storie che racconti sono la tua storia, e nelle persone che hai incontrato la tua storia si specchia, e si riconosce.

Credo anche che a quell’eternità che il lettore cerca tra le righe tu abbia voluto dare l’immagine bella e struggente del “salotto buono” – che mi ha fatto venire gli occhi lucidi – mentre scrivi delle smisurate possibilità dell’infanzia (il lutto bianco che tutti portiamo dentro). «Quel salotto buono era il paradiso: un luogo che concentrava tutte le speranze, le nostre povere speranze di bambini, felici per niente, sicuri dell’amore».

E penso, anche, che la forza dei tuoi racconti, al di là della tua scrittura impeccabile, degli echi e dei rimandi “culturali”, sia nella trasgressione. Guardiamoci intorno: pare che l’unica via (che ci costruiamo con le nostre mani, peraltro) sia quella distruttiva che approda alla disperazione e non prevede redenzione. Tu dimostri che la disperazione non è il punto d’arrivo, ma quello di partenza.

Di questi tempi è trasgressivo esserne convinti. Ma è ciò che fa la differenza.

[da qui]

lunedì 26 gennaio 2009

Gianmario Lucini

Nota di lettura 

Mi perdonerà Fabrizio se nel mio immaginario colloco i suoi brevissimi ma densi racconti come un oggetto anomalo a metà strada fra Antologia di Spoon River di E.L. Masters e Il diario di un curato di campagna di Georges Bernanos, che peraltro ho letto più di trent'anni or sono – e dunque, più correttamente, dirò che è a quell'atmosfera che mi ricollego. Lee Masters era sindaco a Spoon River, Fabrizio è prete nella periferia romana. Due figure che, messe a contatto con la gente, ne hanno subito il fascino, per molti aspetti in modo simile. La prosa di Centofanti, essenziale ed asciutta, non è peraltro neutra. Il suo obiettivo è l'immedesimarsi nelle situazioni, una ricerca di empatia con i suoi personaggi, senza giudizi e senza accuse. Campeggia la figura di don Mario, l'uomo burbero folle di carità, poeta a suo modo del suo ruolo (che in qualche modo è pubblico e anche istituzionale) che lo espone ai rischi delle situazioni relazionali più difficili, pagate duramente (è lui il prete bruciato, ossia cosparso di liquido infiammabile da alcuni balordi e acceso come un cerino) e vissute nascostamente e umilmente: un prete decisamente anomalo (non illudiamoci che tutti i preti siano così, ma riconosciamoli quando lo sono...), direi milaniano, che evidentemente ha colpito la sensibilità di Fabrizio, che ne subisce il fascino e la lezione morale (io stesso ho intravisto don Mario e gli ho stretto la mano: un uomo che lascia un ricordo anche solo con un saluto). Poi ci sono le figure protagoniste, figure vere e storiche. Io stesso ho infatti conosciuto i "barboni" che ogni giorno stanno davanti alla canonica di don Fabrizio e sul sagrato della chiesa.
Dunque nel libro non c'è nulla di inventato. I suoi protagonisti, tratteggiati con grande partecipazione empatica, si possono incontrare ancor oggi, morti a parte che "dormono sulla collina". I personaggi, a ben vedere, sono ancora quelli dei romanzi di Pasolini, quelli che troveremo sempre nelle periferie romane sin quando ci saranno le periferie, l'ingiustizia e la piaga della sottocultura di massa.
Una nota ancora sulla prosa di Centofanti, essenziale, scarna, antiretorica. L'unico sobrio vezzo letterario che l'autore si concede sono alcuni castigatissimi spunti descrittivi, che peraltro servono da filo rosso per infilare riflessioni e considerazioni, per dare insomma corpo al racconto ancorandolo ad immagini e situazioni. E' un modo di raccontare insolito, a volte connotato di un certo "gergo" parrocchiale (si potrebbe dire, con una battuta che l'autore mi passi, una "deformazione professionale"), ma penetrante e convincente, che punta subito a un nocciolo, a un senso, a una concretezza che ha in sé le ragioni del suo proporsi e quindi non necessita di artifici letterari, di enfasi, di retorica o di altri stratagemmi per farsi apprezzare. Ma voglio qui proporne un esempio, che spiega meglio delle mia parole le sue ragioni. Uno dei ventidue brevi racconti (di due, massimo quattro pagine) tratto dal volumetto di Fabrizio Centofanti.

Come un film

Mario era un caratterista, viveva di cinema. Aveva imparato tutti i trucchi della recitazione, cosa che gli era poi servita nella vita, perché traeva spesso dal cilindro soluzioni d'emergenza imparate sul set. Le sue giornate procedevano senza troppi scossoni, con le piccole soddisfazioni che, in genere, riempiono il tempo, anche se qualcosa manca e s'intuisce che l'andirivieni delle ore potrebbe portare da un momento all'altro la novità che fa saltare le abitudini. E così fu.
La novità gli si presentò sotto forma di grande amore, una donna russa di nome Tatiana, che lo scombussolò tutto. Il lavoro gli sembrava, adesso, un'altra cosa: la recitazione era sentita, spontanea, come se sgorgasse direttamente dal cuore, con una forza mai sperimentata. Quando Mario tornava a casa, non gli sembrava vero che gli venisse incontro questa figura bionda, alta, pronta ad abbracciarlo e capace di trasformare in sogno le ore della sera, al punto che non capiva come prima si potesse accontentare di quella cosa che chiamava vita. Facevano presto a ritrovarsi avvinghiati l'uno all'altra, come se Mario avesse paura che il sogno gli sfuggisse, che un genio cattivo, geloso della sua gioia, gli strappasse dalle braccia il più bel film della vita. E così fu.
Quella sera, tornando a casa, sentiva di dover fare in fretta, come quando gli davano una parte all'ultimo momento, e lui passava la notte a ripetere gesti e parole del copione, tra caffè e zollette di zucchero per restare sveglio. Alle prove arrivava distrutto, con un senso di nausea per la vita, per il tempo. Quello stesso senso di nausea che lo prese quando, aperta la porta, non vide la donna che gli correva incontro ad abbracciarlo.
Cominciò ad attaccarsi al telefono, finché apprese l'unica notizia che non avrebbe mai accettato, l'annuncio che aveva gli occhi del genio cattivo, geloso della sua gioia spropositata. «Dev'essere stato uno scontro frontale, inaspettato». Sul tavolo dell'obitorio, di Tatiana restava una carne martoriata in cui Mario cercava di riconoscere la novità che gli aveva rivelato l'altra faccia delle sere malinconiche e banali; ma di questo non vedeva nulla in quel corpo deforme e insanguinato. Non voleva, non poteva reagire a questo evento.
Fu allora che cominciò a bere. Non so come finì da noi: era alto un metro e 75, capelli brizzolati, cinquant'anni passati da poco. Forse approdò qui come tutti i relitti provenienti dallo spazio sconfinato della disperazione umana. Forse perché noi stessi eravamo relitti che la corrente cosmica trascinava in questo posto, e fra relitti ci si poteva guardare negli occhi e riconoscersi.
Don Mario lo accolse, come sempre faceva, gli cedette il letto e dormì per quattro anni sul divano. Mario non sembrava particolarmente grato di questo privilegio. Al vino non rinunciava in nessun modo: il prete faceva di tutto per tenerlo lontano, ma lui escogitava trovate rocambolesche, che aveva imparato negli anni in cui lavorava da caratterista.
Quando don Mario trovava in casa una bottiglia, o addirittura casse intere di Sangiovese da supermercato, faceva delle scene sempre più violente, che l'altro, tuttavia, digeriva con disinvoltura, come stesse godendosi gli effetti speciali di uno dei tanti film sulle catastrofi. Si rendeva conto che la sua esperienza gli serviva a questo: vedere in ogni cosa il lato di arte, di finzione, come se l'indignazione più giustificata contenesse un rovescio di posa, di lavoro su se stessi, per apparire credibili e aumentare la fila al botteghino.
La sua abilità consisteva nel trovare sempre nuove ragioni con cui convincere le persone a rifornirlo di alcolici. Il bello era vedere come i parrocchiani, pur catechizzati, cadevano regolarmente nel tranello: nel momento in cui Mario cominciava a parlare, partiva un film che inscenava una vita parallela, quella che Mario s'inventava perché le sue giornate non tornassero al grigiore intollerabile della sua esistenza precedente l'incontro con Tatiana.
La vita parallela era questo suo continuo pensiero per l'amante russa, per cui, qualunque cosa facesse o dicesse, l'immagine che scorreva al di sotto era quella della donna alta e bionda che lo abbracciava al suo ritorno a casa, e restavano così, per ore, avvinghiati l'uno all'altra, a causa della sua invincibile paura del genio cattivo che avrebbe potuto portargliela via, come in effetti era avvenuto.
La questione si aggravava per il fatto che il prete e l'alcolista avevano lo stesso nome. Quando arrivavano le telefonate e dall'altro capo del filo chiedevano: «Don Mario?», Mario rispondeva: «Sì, sono io», e intavolava lunghe discussioni come se il prete fosse lui. Una volta, il parroco gli sentì pronunciare questa frase: «Signora, le posso assicurare che la confessione sacramentale è stata abolita». Don Mario non ci vide più: gli fece la scenata più terribile della sua vita, ma il caratterista lo contemplava con un'aria beata, come davanti allo schermo gigante del Warner Village di Ostia Lido.
Continuarono così, fino alla fine. Mario a raccontare balle per ritrovare il colore della sua Tatiana, don Mario a rigirarsi sul divano in cerca di una soluzione. Un giorno l'attore era agli sgoccioli, e accettò di ricoverarsi in ospedale. Non era mai successo. La condizione era che il prete gli facesse compagnia. Prima di morire, Mario chiese a don Mario un bicchier d'acqua: non l'aveva mai fatto da quando Tatiana se l'era portata via il genio geloso della sua fortuna. Il sacerdote raccolse l'ultimo respiro: aveva perso l'odore dell'alcol, sapeva già di un mondo dove nessuno ti sveglia per darti una terribile notizia, dove la sera non è mai banale e la malinconia è il ricordo di un'avventura digerita facilmente, come un film.

giovedì 13 novembre 2008

Roberto Rossi Testa

Appunti per una presentazione di Guida pratica all'eternità (racconti) di Fabrizio Centofanti

di Roberto Rossi Testa

Non entro in questa sede in dettagliate considerazioni numerologiche, tanto più facili e consuete per la poesia ma possibili anche per la prosa, pensiamo soltanto agli sterminati studi di Ivan Panin sulla Bibbia.

Mi limito a osservare che i racconti di questo libro sono 19 (12 + 7) , ai quali l'autore sente il bisogno di aggiungere tre “quadretti” pubblicati sul blog letterario Nazione Indiana, completando così il numero degli arcani maggiori, forse in omaggio a Calvino, di cui è studioso e su cui ha anche scritto un bel libro. Inoltre i 19 racconti sono partizionabili anche in 3 + 16, dove i primi 3 alludono direttamente alla sua persona e all'inizio della sua missione, a mo' di prolegomeni, mentre gli altri 16 sono spaccati d'esistenza del suo ministero pastorale.
Nel primo racconto, L'editore, omaggio esplicito al suo Calvino, l'autore appunto si sdoppia nella figura di un editore. Editore e non autore, a sottolineare ciò che i racconti seguenti saranno: reperti, regesti d'incontri, ai quali egli presta la sua opera affinché possano diffondersi, ma che in certo qual modo e misura trova già come fatti e formati.
Nel secondo racconto, Scacchiere, l'omaggio ancor più esplicito e personale è a Rebora, il secondo suo autore che completa il suo curriculum (almeno quello ufficiale) prima della vocazione religiosa. In esso si parla della ricerca della libertà, ma non certo nel senso della libertà di fare ciò che gratifica, bensì del processo di liberazione dalle lusinghe, della vittoria su di esse, al fine di dare scacco matto all'Avversario. È chiaro che se l'autore pone in limine con tanta forza la questione dell'identificazione è perché dentro di lui, lo dico non come accusa ma con partecipe affetto, la battaglia è lungi dall'essere vinta: la vittoria si può conseguire solo vivendo, e vivendo con scialo di se stessi.

Come si dirà nel terzo racconto, integrare i vari momenti della propria esistenza, le proprie parti in contrasto, è cosa che richiede tempi eterni, dal momento che si affrontano traumi la cui guarigione richiede nientedimeno che l'eternità.

Di passaggio si nota che nei suoi racconti l'autore, esattamente come Dante e come ogni altro autore che usa se stesso come personaggio, è lui e non è lui al tempo stesso, e forse è meno lui dove e quanto più sembri essere proprio lui. Questa regola ha poche eccezioni, un esempio delle quali potrebbe essere il libro “L'incoronazione” di Sergio Quinzio, ma qui il discorso si farebbe delicatissimo, aleatorio e porterebbe troppo lontano. Diciamo solo che qui sta il discrimine fra chi fa “e” intende fare letteratura e chi fa “o” intende fare qualchecos'altro.
Nel terzo racconto, Dialoghi fra la terra e il cielo, l'idea di fondo è il prezzo che si paga per (tentare di) essere di giovamento agli altri. Chi veramente giova agli altri non può giovare a se stesso, anzi almeno dal punto di vista del mondo prepara la propria rovina. Non si sceglie di avere certi doni, si può al massimo e solo in parte scegliere se e come usarli. Dal momento di tale scelta la vita è segnata, e come si diceva all'inizio da questo punto si passa senz'altro alla seconda parte dell'itinerario esistenziale dell'autore e/o del suo personaggio.
Nel quarto racconto, Il gioco dell'impiccato, il problema posto al centro è quello dell'identificazione, del rispecchiamento. Il vivo si specchia nel morto, un morto appeso e pensoso, altro oggettivo omaggio alle figure dei tarocchi e quindi forse a Calvino. Ciò che alla fine distingue il vivo dal morto è la tazzina di caffè che un sacerdote porge al vivo. Questo sacerdote fuori campo, di cui in campo entra solo una mano, e forse un pezzo di braccio, è dunque il motore dell'azione o almeno sua causa materiale, come accade nei quadri dove il pittore si rappresenta piccolo e modesto in un discreto angolo del quadro. La riconoscibilità comunque è assicurata da un elemento infimo e triviale soltanto ad una considerazione poco attenta. Si tratta infatti dell'odore, e l'odore è ciò che più ci rappresenta e caratterizza. L'odore ci annuncia prima del nostro arrivo e anche quando ce ne andiamo lasciamo tracce persistenti di calore e odore. Ma mentre il calore lo registrano solo certi animali e certe moderne apparecchiature, l'odore lo sentono e magari lo riconoscono persino i nasi più civilizzati. Elemento dunque anche imbarazzante di fisicità, quella fisicità che nel diciottesimo racconto verrà collegata direttamente alla pienezza della persona umana ed all'adempimento del suo destino.

Nel quinto racconto, Canonica paradiso, il cui titolo fa il verso a un film famoso, anche a testimonianza dell'amore dell'autore per il cinema, che bene risalterà in particolare nell'ottavo racconto, siamo ormai inoltrati nel tunnel, dal barbone al drogato. E dallo sfondo pian piano vengono alla ribalta le “tonache nere”, dal prete bruciato all'italianista mancato (e quindi metaforicamente bruciato anche lui), non fosse che per il fatto che “non c'è nessuno che si faccia infinocchiare come loro” (ecco la debolezza che si rovescia in forza, la stoltezza che si muta in saggezza). I Giusti della tradizione chassidica e sufi sono così interpretati: “Se gli infelici della terra non si uniscono per far saltare il pianeta è perché qualcuno si fa infinocchiare tutti i giorni senza lamentarsi”; dove, da parte del personaggio che pronuncia tale battuta, non si sa se siano maggiori l'irrisione e il rimprovero o una magari inconscia ammirazione.
Nel sesto racconto, Mani, si intravede per fotogrammi staccati ciò che ha fatto diventare una ancora generica vocazione una speranza adulta, una sfida in cui Dio è assecondato con dedizione piena ma anche continuamente richiesto di pronunciarsi in modo esplicito. L'inizio vero di questo cammino è nel momento in cui i piedi non poggiano più su terreno solido, la strada si è trasformata in altro, ma il camminatore non s'impressiona né tantomeno si ferma o torna indietro. Nell'incontro con un fratello e padre spirituale, nelle volute dei fumo della sigaretta che questi tiene in mano, il camminante trova i migliori motivi per fermarsi un istante e poi riprendere il cammino: trova tutti i motivi, per sé e per il mondo, del quale quel fumo nel suo flottare sembra contenere e reggere tutto il bene e tutto il male. Quel fumo è anche prefigurazione delle fiamme che avvolgeranno la sua guida spirituale e che lambiranno anche lui, passandogli il testimone di una prova che non finisce se non con la vita stessa. Ed il discepolo dimostra di aver tutti i numeri per poterla superare perché, pur nell'amore immenso che lo anima, non rinuncia a chiamar le cose con il loro nome, definendo “assassino” l'infelice incendiario. La confusione delle cose e dei fatti parte dalla confusione dei nomi e delle parole, che porta inevitabilmente alla confusione dei concetti che descrivono le cose e narrano i fatti. Solo riportando ordine nell'espressione potremo sperare di riportare ordine, se non proprio nel mondo, almeno nelle coscienze.

Il settimo e ottavo racconto, Agatino e Come un film, sono legati dal filo conduttore del cinema, come già detto una delle passioni culturali dell'autore: il protagonista del primo è un personaggio da film, con quella sua tenuta che ricorda quelle dei personaggi del Far West, il secondo nel cinema addirittura ci lavora, fino al dramma che sconvolge la sua vita. Entrambi sono dei drop out per i quali l'unico lieto fine possibile è quello che si prolunga oltre l'esistenza terrena, anticipato però dai gesti d'amore di don Mario, il maestro dell'autore, che dimostra ai due la sua costante attenzione e, nei momenti cruciali, “pre”dilezione, malgrado il loro modo di porsi, che nel primo sembra solo espressione del suo “essere fuori”, mentre nel secondo si sostanzia in sfide che sono poi delle richieste d'aiuto: quelle richieste che solo pochissimi sanno e vogliono capire e soddisfare.
Leggendo il nono racconto, Messaggi, non si può fare a meno di pensare alla miracolosa liberazione dal carcere di Pietro, anche se qui non di liberazione si tratta ma dell'insperato successo del tentativo del protagonista di mettersi in comunicazione con i familiari, mentre le fauci della prigione si stanno chiudendo su di lui in un modo che viene insistentemente presentato come diabolico; e certo questo episodio non pare meno miracoloso di quello narrato nel capitolo 12 degli Atti degli Apostoli.
Nel decimo racconto, Pugili allo specchio, c'è la lotta contro la droga per Filippo, contro la birra per il (futuro?) sacerdote. Certo, non ogni combattimento è buon combattimento in senso cristiano, ma almeno chi combatte non sarà vomitato come tiepido. Siamo ancora di fronte a una storia di (auto)riconoscimento, che non può (più) avvenire se non rispecchiandosi, come già nei precedenti testi la comunicazione si avvia soltanto sentendo empaticamente la vita e i movimenti dell'altro. Ciò che fin qui emerge è il problema della (auto)conoscenza, che non può verificarsi che mediante “l'altro conoscere”: conoscere Dio negli altri, gli altri in Dio. Due strade diverse per un processo che finisce per essere il medesimo, l'unico per il quale si può arrivare a conoscere (anche) se stessi. Nel rispecchiamento ci si conosce non solo attraverso quello che l'altro ci rimanda, ma andando oltre la superficie dello specchio, addentrandoci come in un'altra realtà che finiamo per conoscere come la pienezza della nostra, cosicché dalla conoscenza può nascere anche la riconoscenza .

Nell'undicesimo racconto, Antonio, ci sono delle interessanti suggestioni, più, che affermazioni esplicite, su che cosa sia e che cosa comporti un miracolo; a riprova, fra l'altro, di come la cultura dei libri, la meditazione e l'esperienza anche estrema del quotidiano nell'autore si fecondino e irrobusticano a vicenda in un crescendo continuo. Dunque: miracolo come evento raro ma naturale (naturale ma raro, e che per di più accade proprio al momento opportuno, come recita un midrash) o come irruzione di mirum e tremendum, non tanto da invocare, ma dal quale più che altro guardarsi? In questo racconto abbiamo un miracolo che prende alla gola a tradimento e sembra (dico sembra) chiedere un tributo di sangue; in mancanza del quale il miracolo letteralmente si sgonfia e va, sempre letteralmente, “a spaventare qualcon altro”. Oltre al tributo di sangue, ciò che davvero sembra propiziare il miracolo è u atto gratuito compiuto in spregio alla ragionevolezza, al calcolo delle probabilità; dopo di che il miracolo si verifica, certo non subito, ma dopo, e vivere nell'orizzonte del miracolo è vivere nella logica del “post hoc, propter hoc”, laddove sempre più spesso l'invocazione della casualità si svela come misera e miserabile superstizione scientista.
Nel dodicesimo racconto, La bestemmia soffocata, c'è Tito con la sua agorafobia, un uomo che disdegna i contatti con gli uomini perché li soffre e con le cose perché se ne sente legato, e cerca la leggerezza nel vuoto. Alla fine si capisce che sua non era che attesa, paura di mancare il solo appuntamento che contava, cosa che lo rendeva in fondo uguale a chi, per lo stesso scrupolo, faceva una vita in apparenza tanto diversa da lui.

Il baricentro del libro è nel Come stai? di don Mario, il prete bruciato, interrogativo non retorico che dà il titolo al tredicesimo racconto. È un “Come stai?” rivolto ai disperati che in qualche modo siamo tutti, un “Come stai?” che non chiede la risposta stereotipata “Bene, grazie, e tu? ”, ma si accontenta di sollevare il coperchio del vaso di Pandora dei guai altrui lasciando che il gran vento che se ne alza possa infine trovare sfogo e solo dopo di questo giustamente placarsi.

Nel quattordicesimo racconto, Vulcani, si assiste alla fine di un eroe sbagliato, che mi ha richiamato alla memoria quella del fratello aviatore della poesia di Brecht, per il difetto d'amore e comprensione che sottende, difetto che inesorabilmente riemerge e colpisce. Si può usare dell'energia del vulcano ma occorre sapere che esige sacrifici, se non in vita in morte, sempre che si sappia cogliere in tempo la differenza sottile.

Nel quindicesimo racconto, Pastorale, viene celebrata la potenza primigenia e tellurica del “vaffanculo”, espressione che molte volte e comunque in questo caso significa: “Ma ti rendi conto di quello che dici e di quello che fai? Ritorna in te, torna con noi!”, espressione dunque forte e severa di riprensione fraterna, che ovviamente non esclude il perdono per quella fondamentale ignoranza ma fissa dei paletti e mette in mora (condizioni che peraltro non aspettano che di farsi travolgere dall'amore). Questa espressione sboccata ma spesso ampiamente giustificabile è l'esatto contrario dell'imperversante “Fatti i cazzi tuoi” che, facendo le viste di celebrare l'onnipotenza degli individui, in realtà li confina nei loro deliri: negando persino l'esistenza di quelli comuni e facendosi “i cazzi suoi”, ognuno in realtà è murato in sé stesso, con l'unica compagnia dei propri demoni.

Al precedente si collega in modo stretto e diretto il sedicesimo racconto, Polvere, in cui si mostra come il cattivo carattere e le separatezze, forse più che differenze, vengano livellati dalla consapevolezza se non dall'accettazione del destino comune.

Nel diciassettesimo racconto, Lettera di Natale (a un amico malato di SLA), scrivendo a quest'amico che ha dentro e intorno a sé la difficoltà e la fragilità e di fronte la prospettiva della fine in modo certo più netto e deciso di quanto non accada alla generalità delle persone, l'autore dispiega i rassicuranti luoghi comuni dell'esistenza: il papà ha una mano forte che guida, la mamma è sempre pronta a difenderti; anche se a volte le cose vanno diversamente, nel ricordo almeno dovrebbero sempre essere così, l'ossequio all'archetipo è un'importante fonte di equilibrio. Ma anche al riparo dell'archetipo c'è qualcosa che sfugge, qualcosa che inquieta e spaventa come il Belfagor televisivo che spaventò i bambini della generazione di Centofanti , che è anche la mia. Ebbene, per questi conti che non tornano e inquietudini e spaventi non ci sono risposte né rimedi né conforti. C'è soltanto la speranza che nell'evidenza della circolarità cattiva dell'esperienza umana si manifesti all'improvviso uno squarcio da cui possa irrompere il Regno.

Il diciottesimo racconto, Levate la pietra, il cui titolo si riferisce all'episodio della resurrezione di Lazzaro ma che fa anche venire alla mente l'opposto ed analogo “Aprite la porta” di “Assassinio nella cattedrale”, è come una riflessione drammatizzata sul corpo mistico. Il sacerdote, superato il trampolino della sacrestia, non è più solo lui, pronuncia parole che gli vengono dettate, e lo stesso avviene al popolo cristiano quando prega e canta all'unisono. Ma, al contempo, nei giorni freddi la chiesa va riscaldata, altrimenti qualcuno potrebbe ammalarsi. Ci viene così ricordato che non siamo solamente spirito, che persino nella morte il distacco dal corpo (misero corpo, ma prefigurazione di quello glorioso), non è definitivo bensì provvisorio, nell'attesa della pienezza e della resurrezione.

Il diciannovesimo e ultimo racconto, 21 dicembre 2012, parla non della fine del mondo, sulla quale per il credente non sono possibili congetture e previsioni, ma della fine di questo nostro mondo presente. Fine alla quale il protagonista, con cui l'autore sembra ancor più che in altri casi confondersi, prega di non sopravvivere, qualora in essa la parte migliore del suo essere dovesse soccombere. Ora, a tale parte si possono dare nomi diversi, appartenenti tutti alla contingente storia individuale, però il suo nome vero è sempre “Amore”.

Così terminato, il libro si riapre per una breve appendice, per una terna di aggiunte, di chiose.

Nella prima, Una cosa ridicola, lo scrittore pare reclamare i propri diritti: anche le cose peggiori viste sotto una certa luce appaiono se non buone almeno sorprendenti, quasi delle perle barocche. Così la porta sfondata della canonica svaligiata diventa “un saluto un po' troppo entusiasta, un abbraccio esagerato”, dove tutto rimanda però, a filo di paradosso, al suo ubi consistam di testimonianza e di fede.
Ma il vero saluto e la vera cosa ridicola sono lo strano saluto del sagrestano disabile (“diversamente abile” dice l'autore), “Eccolo, va'!” al prete che si accinge a dire Messa, e che solo da ultimo si rivelano essere il saluto di Dio: cosa ridicola dunque, cosa da nulla, e infinitamente preziosa.

La seconda aggiunta, La forma perfetta, dibatte la questione della forma e del contenuto con accenti emotivi e polemici, ai limiti della ribellione: “Celebrare. L'idea sarebbe quella del silenzio”, “La forma perfetta è la faccia dei poveri”, fino alla domanda quasi gridata: “Che c'entra un prete con metrica, retorica e stilistica?”. Ma l'autore in tutte le sue determinazioni umane sa bene che con quelle cose un prete c'entra moltissimo. Perché un prete, come si potrebbe dire oggi, è (anche) un “operatore liturgico”, e la liturgia è ciò che opera la trasformazione, per usare il linguaggio quotidiano, delle forme in sostanza, in quella sostanza attinta la quale non ci sarà più ritardo né attesa, essendo ogni cosa pervenuta al suo tempo, luogo e modo di manifestazione appropriato.

Con la terza aggiunta, Il canto del gallo, il libro finisce veramente, ma con un topos classico, appunto quello del canto del gallo, che in realtà lo riaffaccia a infinite aperture e sorprese. Da pressanti domande sulla natura della vocazione e sulla comunicabilità dell'esperienza interiore scaturisce l'intuizione che la chiamata non è altro che la scoperta della reale esistenza del mondo, nel quale, e lo si capisce bene quando si avverte e si segue il flusso dello spirito, tutto è grazia. E sulle parole dell'umile e altissimo curato di Bernanos l'autore e il lettore fanno il gesto di prendere reciproco congedo, ma entrambi sanno che al gesto non farà seguito l'atto.

Per terminare, una confessione personale. Mi ero ripromesso, dovendo parlare del lavoro letterario di don Centofanti, di limitarmi strettamente alla letteratura, alla letterarietà dell'opera. Strada facendo mi sono reso conto che non era possibile, anzi, che non “mi” era possibile. In difesa degli interessi dell'arte, della sua pretesa purezza, ho sempre avuto un'intransigente diffidenza verso gli autori che affrontavano i problemi sociali o addirittura le tragedie collettive del loro presente; e parlo di autori fra i più grandi. Ma la conoscenza prima, e poi il rapporto quotidiano con don Centofanti mi hanno impedito di mantenere più a lungo il mio vecchio atteggiamento. Ho dovuto constatare l'assoluta sincerità e abnegazione del suo lavoro sociale e pastorale, l'esatto contrario di un mero investimento per racimolare agganci e fama; ed ho soprattutto dovuto riconoscere che tale pratica non indeboliva né sviliva la sua arte, ma la fortificava fornendole un orientamento costante, indipendente dagli alti e bassi dell'io e dell'esistenza quotidiana. Insomma, devo confessare che il contatto con quest'uomo, questo sacerdote, questo scrittore, mi ha molto cambiato, come penso che possa cambiare almeno qualcuno di voi.

martedì 2 settembre 2008

Alessandro Zaccuri

Di solito sono gli altri, i non consacrati, a tenere il diario dei
preti: l'indimenticabile Bernanos, il dimenticato Lisi, il sempre
riscoperto Bruce Marshall. Questa volta, però, Fabrizio Centofanti – sacerdote della diocesi di Roma – ha deciso di provvedere direttamente. La sua Guida pratica all'eternità, che di fatto costituisce un esordio narrativo, è un journal come se ne possono scrivere oggi: frammentario, allusivo, alla continua ricerca di un punto di equilibrio e consistenza che, prima
ancora di essere enunciato con chiarezza, viene percepito dal lettore
quale dimensione interiore, sguardo, attesa. Succede così nella parte
centrale del libro, occupata dai ritratti dei tanti sbandati che, per
vie diverse, intrecciano la loro storia con quella di don Mario, il
parroco impegnato sul fronte della droga e dell'emarginazione al
quale, una notte, vengono appiccate le fiamme. Il 'prete bruciato' è
la manifestazione più visibile di quel principio di unità e di
coerenza che Centofanti delinea con maggior precisione, ma senza
rinunciare alle sfumature di una scrittura mai perentoria, nei
'quadretti' in cui descrive la vita quotidiana di un sacerdote di
oggi.
Originariamente apparsi in rete su 'Nazione Indiana', questi ultimi
testi rappresentano fra l'altro una testimonianza del lavoro che lo
stesso Centofanti svolge attraverso il blog collettivo 'La poesia e lo
spirito' (http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/), punto di riferimento sui temi legati al dialogo fra letteratura e spiritualità.
Un impegno che nasce da lontano, come suggerisce un altro dei
racconti, nel quale Centofanti ricorda il suo iniziale lavoro come
studioso dell'opera di Clemente Rebora, uno dei massimi poeti del
Novecento, sacerdote a sua volta e autore – non a caso – di versi che
si prestano a essere letti proprio come straordinario diario di
un'esperienza di fede e abbandono in Dio. Rebora, per Centofanti, era
infatti «il poeta che aveva saputo rinunciare persino alla poesia, vincendo l'ultima partita con uno scacco matto all'Avversario». È, in altre parole, un testimone e un modello non meno impegnativo del già ricordato 'prete bruciato', che Centofanti si premura di identificare in don Mario Torregrossa, il sacerdote romano rimasto invalido dopo il
terribile agguato incendiario subìto nel novembre del 1996. Anche per
questo, come osservano sia Remo Bassini nella prefazione sia Riccardo
Ferrazzi nella postfazione, i «racconti fra cielo e terra» lasciano intravedere un disegno più ampio e complesso. In una prospettiva letteraria, certo. Ma anche – e anzitutto – cristiana.
Fabrizio Centofanti
Guida pratica all'eternità
Racconti fra cielo e terra
Effatà. Pagine 96. Euro 9,00

Pubblicato su Avvenire del 2 settembre 2008

sabato 23 agosto 2008

Giuseppe D'Emilio e Arturo Fabra

Giuseppe D’Emilio e Arturo Fabra recensiscono Guida pratica all’eternità di Fabrizio Centofanti; segue un’intervista all’autore.

Non è facile aggiungere qualcosa a quanto è stato detto, spesso benissimo, da altri recensori di questa raccolta di racconti, i cui interventi sono disponibili sul blog dedicato al libro; perciò, ogni tanto, attingeremo…

Uno di noi è felicemente ateo, l’altro felicemente cattolico; interessante, quindi, almeno per noi, analizzare insieme il libro di un prete (in questa antologia si usa spesso la parola prete, nonostante oggi le si preferisca sacerdote, che pare abbia un che di meno dispregiativo).
L’autore, Fabrizio Centofanti, infatti, è un prete, un prete che ha cose da raccontare, e che sa farlo bene.
E, come afferma Riccardo Ferrazzi nella postfazione: Fabrizio Centofanti è un sacerdote, ma, grazie a Dio, non ci riempie le orecchie con quella oratoria melliflua e democristiana che fa venir voglia di correre a prendere la tessera del PCUS.
E, aggiungiamo noi, non pare nemmeno uno di quei preti, forse ancor più fastidiosi, che ostenta ad ogni occasione “modernità”, anticonformismo di maniera.

Ma partiamo dalla scrittura.

Prevale la paratassi, lo stile è piano, ma, come sa chiunque abbia un po’ di familiarità con lo scrivere, uno stile apparentemente “semplice” è quello più “difficile” da realizzare, più impegnativo. Lo si comprende anche dal fatto che ogni parola è “pesante”, densa di significato, “studiata”, evidentemente.

Bene quindi ha fatto Elena F. Ricciardi a scomodare per Centofanti le Lezioni americane di Calvino; e Centofanti stesso, nell’intervista che segue, indica in Calvino un suo punto di riferimento.

E Giovanni Nuscis osserva:
Dopo la lettura dei primi racconti ci sovvengono alcune voci note: “descrivi il tuo villaggio e sarai universale” (Tolstoi), “parla solo di ciò che conosci” (S. King), “descrivi e non fare il furbo” (Puskin). Ebbene, l’autore, queste voci – e non solo queste - sembra averle ascoltate tutte. Il villaggio è la parrocchia. Le persone che ci vivono o ci gravitano sono i protagonisti di queste storie spesso disperate. L’esattezza, la leggerezza e la rapidità calviniane nel descrivere sono qualità evidenti di questa scrittura.

I racconti, che parlano di disperati, di alcolizzati, di drogati, di emarginati (di “ultimi”, insomma), sono brevi, fulminanti, ma fatti della luce di quei fulmini che lampeggiano lontani nelle notti estive. E a volte Centofanti, in questa ricerca di essenzialità, è aforistico: offre frasi che verrebbe voglia di sottolineare, come si faceva da adolescenti.

I finali sono “naturali”, non enfatici, un acuirsi inevitabile e non una forzatura della narrazione volta a stupire con effetti speciali, a spiazzare a tutti i costi. E, cosa non certo secondaria, si nota una conoscenza vera, non letteraria e ricostruita, del dolore del mondo.

Per quasi per tutti i personaggi di questi racconti la felicità è rinviata all’Aldilà, all’eternità, appunto.
Viene in mente il Manzoni del non resta/che far torto, o patirlo. Ci pare, questa, una possibile chiave di lettura dell’antologia.

La fine, la morte, è accettata non con stoica rassegnazione né con epicurea ineluttabilità; se la vera vita è quella eterna, appunto, è meglio morire prima possibile, per tutti; e al lato ateo di noi due è sempre parsa assurda la parte superstiziosa della religione cattolica, quella che lucra sulle disgrazie per rimandarne l’esito finale, quella, per dirla con Foscolo (ma come siamo ottocenteschi, oggi…) della “venal prece”.

Del resto, in un racconto si legge che quella del mondo è una “felicità illusoria”. Il regno dei cieli, appunto…

Spesso, nei racconti è presente un personaggio: don Mario; come spiega la nostra cara amica Ramona Corrado, si tratta di:

un altro prete, pure lui di strada, un prete sui generis dalle poche parole, molte sigarette e moltissimi fatti. È stato lui a indirizzare l’anima sbandata di un giovane all’epoca alle prese con un dolore immenso e inconfessabile. È stato lui a insegnare a quel giovane a tendere le mani per dare e non per chiedere, e a mettere a disposizione la propria vita per quella degli altri. E non solo in senso figurato.
Don Mario Torregrossa infatti è stato realmente vittima di un folle che gli ha appiccato fuoco, lasciandolo a combattere a lungo tra la vita e la morte, fino a rimanere invalido per sempre
.

La triste vicenda umana di quest’uomo porterebbe facilmente a seguire tentazioni di stucchevole agiografia, ma Centofanti riesce ad evitare questo rischio.

Ma ascoltiamo l’autore…

Sono molti i fili che uniscono i racconti del libro. Uno è decisamente la morte intesa come ingresso all’eternità.

Sì, un motivo è senz’altro quello della morte che non solo non costituisce la fine della storia, ma in un certo senso ne è l’inizio. È come se ci si svegliasse a una dimensione sulla quale l’uomo, con i suoi egoismi e le sue violenze, non ha più potere. Il povero non può essere ignorato o maltrattato, il deviante non può essere giudicato. In questo risveglio l’elemento decisivo è l’apertura del cuore, l’accoglienza di qualcosa che ci viene dato senza alcun segno di contropartita, solo perché siamo noi, e abbiamo accettato di essere noi stessi fino in fondo con i nostri difetti e le nostre stranezze: Agatino (il protagonista di uno dei racconti, ndr) è l’emblema di un mondo rovesciato che superficialmente si giudica maledetto, e che invece è visitato dolcemente da Dio. Questo elemento potremmo chiamarlo speranza: niente di astrattamente teologico; solo la certezza che sono degno di essere amato, chiunque sia e qualunque forma abbia la mia vita. L’eternità è per chi crede che anche una lacrima ha un senso forte, suscita un sentimento riconoscibile nel cuore di Dio.


Infatti insieme a questo “strano” concetto di morte è altrettanto bello quello di amore che viene fuori dai racconti, vero?

Come preti facciamo una vasta esperienza della depressione umana. L’essere umano è depresso perché non riceve attenzione, perché passa inosservato. Questa è un’ingiustizia somma. Nessuno è così abietto o così insignificante da non meritare lo sguardo dell’altro. Sentirsi guardati, presi in considerazione, sentire l’attenzione che si concentra su di te, rinfranca finalmente il cuore, fa vivere l’esperienza della seconda nascita, ossia l’accorgersi di essere amati. La vita comincia solo in quel momento.


Spostiamoci al versante letterario, ora. Lo stile dei racconti è intriso di influenze fantastiche più che trascendentali, tanto che alle volte pare di leggere Buzzati. È un’ impressione errata?

Il mio maestro è Calvino. Quando l’ho incontrato ho capito cos’è la letteratura e soprattutto quale può essere la sua funzione. Calvino si sofferma su ogni parola, non lascia nulla al caso. È quell’attenzione di cui parlavo prima. Una parola può essere la chiave per aprire un mondo. Ma, come ogni chiave, dev’essere perfetta, ogni piccolo errore può renderla inefficace, impedire l’accesso. La letteratura insegna che il linguaggio è una cosa seria, come la vita. Guai a perdere un dettaglio, rischia di sfuggirti il senso. E il senso, nella vita, è tutto.

Quanta di questa attenzione alla parola può essere attribuita all’importanza che La Parola ha nella vita di Fabrizio Centofanti?


Tutto nasce dalla Parola. È Dio che mi insegna ad ascoltare il ritmo della vita e del linguaggio, lui che si ricorda di me, e mi parla. L’ascolto è anche la costruzione del discorso, la disposizione delle parole, la scelta del singolo termine. Più si ama, più si scende nel dettaglio. La teologia è necessariamente anche filologia, studio appassionato di un testo che rivela sempre nuove sfumature. La grammatica della lingua corrisponde alla grammatica della vita. C’è un passaggio segreto che le mette in comunicazione e questo passaggio è l’ascolto, il ricordo dell’altro.

Dunque la scrittura, e non solo la lettura può diventare una Guida Pratica All’Eternità, un’abitudine al Bello come viene inteso in La Poesia e Lo Spirito, il sito di cui Fabrizio Centofanti è creatore/redattore.

Sì, anche la scrittura insegna cosa dire, perché l’eternità ha le sue parole, come ha i suoi fatti. Ci sarà chiesto conto di ogni parola perché nessuna parola può essere privata del suo senso. La scrittura diventa guida alla bellezza, ma è la bellezza dell’eternità, di quella vita che ha dentro un germe che non muore. Da questo punto di vista, la letteratura entra a pieno diritto nell’ambito del sacro: teoricamente, ogni scrittura è una scrittura sacra, se si lascia guidare dal creatore della bellezza. Se si va al fondo della poesia, si trova Dio.

Fabrizio Centofanti è laureato in Lettere moderne con una tesi su Italo Calvino. Sacerdote diocesano a Roma dal 1996, opera soprattutto nel campo della spiritualità e dell’approfondimento della Sacra Scrittura. Ha pubblicato un volume su Calvino (Una trascendenza mancata, Istituto Propaganda Libraria, 1993) e uno su Rebora (Il segreto del poeta. Clemente Rebora: la santità che compie il canto. L’immagine interiore dagli appunti sul messale, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1987) oltre a numerosi saggi e articoli di natura letteraria. Nel 2005 è uscito il volumetto Le parole della felicità, edito dalla Laurus Robuffo. Del 2008 è il libro di racconti Guida pratica all’eternità, Effatà editrice, Torino.

Descrizione del volume

* Titolo: Guida pratica all’eternità. Racconti fra cielo e terra
* Autore: Centofanti Fabrizio
* Editore: Effatà (collana Il piacere di leggere)
* Data di Pubblicazione: 2008
* ISBN: 9788874024230
* Numero pagine: 96

giovedì 31 luglio 2008

Antonio Sparzani


Non so se si tratta di una guida pratica all’eternità, certo è una guida a conoscere un mondo complesso e quotidiano, intriso di fantasia e di cruda realtà, di metafore ardite e di torte di fango.
Una ventina di racconti. Brevi, esili, sembra, però dei flash, accesi per un attimo su un intrico di realtà, che si srotolano alle porte di Roma, intorno a quella stazione che vedete nell’immagine.

Sullo sfondo di tutto sta la costruzione di un centro per i giovani, meglio se sfigati assai, e la presenza di un sacerdote eccezionale, ovunque nominato come don Mario, che questo centro ha voluto e ottenuto con un’energia e un coraggio incredibili.
Fabrizio Centofanti, tra autobiografia e metafora, ci infila a poco a poco in questo mondo, senza pesantezze e senza trattati, ma con mano sicura, forte di una vita spesa senza risparmio vicino a realtà al di là di qualsiasi border-line.

Per capire chi sia questo don Mario, nume sullo sfondo – o forse davvero in primo piano – in tutti i racconti, basta leggersi la storia di Agatino.

«Agatino era un uomo del buio, e veniva nel mondo della luce solo per causa di forza maggiore, per sbarcare il lunario con le sue incombenze da fattorino fuori sede.»
«Un giorno, una beghina della parrocchia chiese di una persona che potesse lavorare nel giardino. Don Mario si rivolse ad Agatino, nella speranza che potesse farcela; lui si mise a dormire su una sedia a sdraio e pretese, alla fine, di essere pagato, senza aver mosso un dito. La donna s’infuriò e cominciò a urlargli sulla faccia. Agatino le rispose per le rime: “Zoccola, zoccola!”. Lei, figùrati, che zoccola non gliel’aveva detto mai nessuno, andò di corsa dal parroco a gridare: “O lui o io!”. Don Mario disse: “Lui”. Quando don Mario rispose : “Lui”, l’anziana signora sbiancò, incredula.»

Fabrizio abbozza così i personaggi, e abbozza anche se stesso, anche il se stesso di prima della vocazione, l’italianista con davanti una promettente carriera da un lato e dall’altro il ragazzotto tutto Ceres e desiderio, e corse in macchina sui litorali lunghi e diritti del Tirreno. Tutto visto come attraverso il velo di una lieve foschia, metafora di un passaggio, un vero salto di vita, una metamorfosi che ha preso la vita di Fabrizio e l’ha rigirata, mantenendone tanti elementi ma dando ad ognuno di essi un angolo di prospettiva del tutto nuovo.

Non tutto è stretta autobiografia, nel primo racconto parla in prima persona un editore straricco che adora i libri, ne ama l’odore, la forma, eccetera, ma ad un certo punto qualcosa d’altro spunta: «Forse anch’io, più che desiderare di abitare, abito davvero le pagine di un agile racconto, mi aggiro tra le righe come la proiezione idealizzata dell’autore….», spunta cioè anche qui un’anima di Fabrizio, una delle molte componenti della sua complessa personalità.

C’è la storia di Mario, caratterista di cinema, che un giorno trova l’amore della sua vita, una donna russa con la quale nasce e s’ingigantisce un rapporto di straordinaria passione e di amore totale, troppo rapidamente troncato da un incidente di macchina che si porta via la ragazza. Mario si dispera, beve e beve e beve e non smette finché si rifugia dal suo omonimo sacerdote che lo accoglie senza discutere come sempre: si instaura tra i due un rapporto nel quale l’uno cerca in ogni modo di bere e l’altro cerca di limitarlo; è perfino divertente, nella sua tragicità, la descrizione dei trucchi che Mario inventa per procurarsi la bottiglia. Continua così finche Mario muore, come era ovvio – l’unico momento in cui chiede un bicchier d’acqua.

Inutile descrivere altri esempi e casi, son tutti diversi l’uno dall’altro, e anche tanto uguali nella densità di una partecipazione vera ai destini di diseredati di ogni tipo, in mezzo ai quali l’autore riesce ad essere, come raramente, con la persona e con la penna.

lunedì 30 giugno 2008

Marco Guzzi

Carissimo Fabrizio,
grazie del libro che mi hai inviato e che sto leggendo con gusto e con pazienza. Senza fretta cioè, un racconto o due per volta.
Sembrano a volte brevi parabole contemporanee, sempre pregne di insegnamenti, attinti però dalla semplicità delle storie più feriali, come Polvere, ad esempio: il disegno preciso e insieme misericordioso di un carattere e di un destino.

Ciò che in particolare mi interessa è la visione generale del fare poetico che mi sembra soggiaccia a tutto il tuo lavoro, e cioè la preminenza della vita sulla letteratura.
Non a caso in Scacchiere parli di Rebora che seppe rinunciare perfino alla poesia "vincendo l'ultima partita con uno scacco matto all'Avversario". La scrittura infatti può diventare idolatria.
Leggiamo a volte veri e propri deliri sul ruolo del poeta, senza che si comprenda il senso autentico di questa vocazione, e cioè la diaconia nei confronti di una Parola che è più grande di noi e che solo nella più umile vita concreta, e nel servizio, trova la sua più piena incarnazione.
Ecco, nei tuoi racconti si sente che per te la scrittura è al servizio della vita e non viceversa.
Speriamo che questa Guida pratica possa raggiungere molti viandanti e molti dispersi.

Un abbraccio grande e affettuoso
Marco Guzzi