domenica 1 giugno 2008

Francesco Marotta

Fabrizio, tu dici: “grazie per il bellissimo dono”. Ma il vero dono è già annunciato dalle parole di Giorgio, e si rivela, nella sua umanissima e compiuta bellezza, nelle pagine che racchiudono, come uno scrigno senza chiave, i racconti di fraterna, dolente umanità che compongono il libro.
La sostanza etica da cui scaturisce ogni parola di Giorgio, infatti, non è altro che la risposta, l’unica possibile, a chi ti avvicina reggendo in mano un dire impastato nella stessa materia, animato dallo stesso respiro, dalla necessità, che si fa spasimo e dolore fisico e paura e speranza, di provare ogni giorno, in ogni momento, le proprie certezze, piccole o grandi che siano, al fuoco dell’esistenza concreta e non della sua immagine idealizzata: senza mai dimenticare che il fuoco che riscalda e genera è lo stesso che consuma, che brucia e incenerisce: l’alito materno che dà vita o la ripugnante fiamma della storia che si accanisce contro un corpo già provato da ogni rinuncia.

Il tuo libro è di una “humilitas” sconcertante, “scandalosa”, che attanaglia: come una “pietra” lanciata con forza, anche quando assume vesti e forme di piuma, contro la finzione, il perbenismo, le convenzioni, le maschere quotidiane, il falso ossequio e gli ancora più falsi rituali di una carità e di una pietà ridotte al rango di stanche abitudini: capace di mettere da parte dogmi e dottrina e di fotografare, in alcuni racconti in modo indelebile, lo spazio esatto di volti che si cercano, che si scambiano respiro e pelle pur senza mai sfiorarsi, che si rincorrono per condividere l’attimo in cui la vita gli si è rivelata, o gli si rivela, nella sua estrema, assoluta nudità: come se questo fosse l’ultimo, o l’unico, scopo da realizzare nei propri giorni. E la vita che ne emerge è il cammino esatto di chi continua a cercare, anche quando il terreno sembra dileguare o scompare del tutto sotto i piedi; anche quando l’unica certezza che si ritrova non è altro che il nulla di orizzonte di chi annaspa nel vuoto: ma, nonostante ciò, ha ancora la forza per rimirarsi nello specchio della sua memoria, quella dei propri passi, quella di un’eco superstite: l’immagine precisa, netta, incancellabile, di chi parte alla ricerca di un uomo di cui conosce appena il nome, e in un paese straniero continua a sussurrarlo alla gente incredula, stupita, intimorita.

E’ un libro della “condivisione”, la condizione ormai rimossa, perché inservibile e inutilizzabile dalle logiche del dominio e dell’egoismo, di chi scopre l’universo al suo primo apparire nei disegni di un bambino, e sa, in cuor suo, che non gli resta altro che contemplare, davanti a quel fluire di segni incerti, tutte le sue teorie, la sintassi, le proporzioni, le regole, il dettato, l’ordine, l’agire, mentre si riducono in fumo e svaniscono come nebbia cancellata dalla luce irriducibile di quei tratti sghembi, elementari. Ed è esattamente quello che avviene in questo piccolo, grande libro dove l’unico miracolo possibile, a misura umana, è proprio l’umana misura, quel “condividere” che ha l’ardire di cancellare l’accumulo, il “moltiplicare” su cui si fonda la sua stessa storia: un intero oceano ridotto a un minuscolo graffio di colore blu su un foglio. E’ così: la mano che ricostruisce l’alfabeto delle vite narrate ha dita infantili: lo scrittore, l’intellettuale, l’uomo colto gli mette a disposizione lo strumento di una struttura armoniosa, essenziale, luminosa nella disposizione e nei procedimenti che ne incanalano il flusso: ma lo sguardo, la percezione e la trasposizione dell’esistente in “quei” colori sono attimi di una pupilla vergine che cresce, e ingigantisce, insieme alle “cose”, che si immerge nella corrente del mondo, ne diventa parte, non giudica, ne legge i segni, la sofferenza: scoprendovi per la prima e l’ultima volta la radice profonda del proprio volto.

Molti anni fa ebbi la fortuna di conoscere padre Turoldo. Mi fu presentato da un compagno di lavoro che era stato un suo allievo. L’avrò visto in una decina di occasioni, e ogni volta erano lunghe chiacchierate, discussioni accese e febbrili su libri, sulle vicende di quei giorni straziati, memorie e racconti degli anni di guerra che non avevo mai vissuto. Ricordo che una volta stetti ad ascoltarlo per molti minuti senza dire una parola. Lui mi guardò con occhi ancora più profondi e mi disse: “Io so cosa vorresti chiedermi: perché ti parlo tanto, di tutto, tranne degli abiti che indosso; tu aspetti solo di sentirmi dire chi è nel giusto, anzi, che io sono nel giusto. Tu aspetti dalle mie parole la conferma a una tua verità, da contrapporre alla mia”. Non risposi. “Ricordati che non è quello l’essenziale. La strada è una, e la si percorre in mille modi diversi, con passi più o meno franti o sicuri. Tu pensa solo a percorrere la tua, quale che sia, e a rimanere te stesso nel cammino. E a chi ti dice che non lasci impronte, regala un pugno di sabbia: il ricordo del deserto che hai attraversato.”

Non l’ho mai dimenticato.

Ecco, ho voluto condividere con te questo ricordo: per ringraziarti del libro, in cui parli della mia gente, del mondo ai margini del mondo in cui sono nato e dal quale non sono mai uscito; perché mi piace pensarti, con abiti e passi diversi dai miei, mentre ogni giorno attraversi quel deserto: perché io saprei riconoscere, in ogni momento, la voce della sabbia che porti stretta alle dita.