lunedì 12 maggio 2008

Postfazione di Riccardo Ferrazzi

Stanno per essere pubblicati diciannove racconti di Fabrizio Centofanti (Guida pratica all’eternità. Racconti fra cielo e terra). Per leggerli ho impiegato il tempo che di solito si dedica a un romanzo, perché non c’è modo di leggerli senza mettersi a pensare. Uno legge il singolo racconto e si accorge che al di sotto sta prendendo forma qualcos’altro. A dispetto della sua apparenza sparpagliata, il libro ha una architettura, un senso e la giusta dose di furberia autoriale.
Tanto per cominciare: l’aspetto formale. Un pignolo potrebbe sostenere che non di racconti si tratta, ma di bozzetti nei quali viene schizzata un’impressione, un rapido imprinting di persone che restano pur sempre impenetrabili, chiuse nella loro incomunicabilità. Qualcun altro potrebbe lamentare la quasi totale assenza di azione: qui non “succedono cose”, ci sono soltanto dei “gesti” che dovrebbero gettar luce su una personalità (e invece, più si cercano significati e più ci si addentra nell’ombra).
Ma sarebbero critiche senza senso: la verità è che ciascuno di questi brevi racconti avrebbe potuto prendere forma di poesia. Letti in questa prospettiva, come se fossero una raccolta di liriche, i diciannove racconti, anche se tracciano separate immagini di esseri umani piegati dalle durezze di una vita che non regala niente, sono tenuti insieme dallo stile, essenziale, che rimanda a un elemento unificante. Quale?
Avviciniamoci gradatamente alla sostanza: Fabrizio Centofanti è un sacerdote, ma, grazie a Dio, non ci riempie le orecchie con quella oratoria melliflua e democristiana che fa venir voglia di correre a prendere la tessera del PCUS. Lui parla di Antonio, Franca, Agatino e Luigia, e mentre li racconta non gliene frega niente di insegnare qualcosa, così come non cerca di dare interpretazioni: Antonio, Franca e compagnia sono esseri umani che suscitano curiosità, sensazioni, sentimenti. Non sono pecore che il pastore si riserva di capire per svelarle a loro stesse. Il pastore non pretende di intrufolarsi nel loro mistero. Non pretende neanche di essere pastore, neanche di essere amico. Cerca soltanto di essere utile.
Perché? Per crogiolarsi al calore di una gratitudine più o meno sollecitata? No, don Fabrizio sa che non c’è gratitudine a questo mondo. Chi dà ciò che ha è considerato fesso; chi dà ciò che non ha è considerato ladro. Tu fai del bene e gli altri se ne approfittano; tu non fai male a nessuno e loro ti danno fuoco.
E allora che senso ha questa voglia di essere utile agli ingrati? Forse possiamo farcene un’idea immaginando un cataclisma. Non la fine del mondo, non il Giudizio universale, ma il più modesto giudizio personale che noi stessi prima o poi dovremo pur dare. Don Fabrizio immagina di conoscere la data precisa in cui il cataclisma avverrà, e si immagina lì, in attesa di un’onda che lo spazzerà via. Non pensa a fiumi di pece bollente o a cori angelici: pensa a cosa farà nei pochi attimi in cui potrà ancora pensare.

“Di fronte allo scatenarsi dell’evento, emergono domande prevedibili: che ho fatto nella vita?… Vengono in mente situazioni in cui avrei potuto ascoltare, intervenire, occuparmi di qualcuno o di qualcosa. Ma la pigrizia, la fretta, l’ambizione, hanno messo impedimenti invalicabili, accumulato strati su strati di opere inevase, che adesso si rovesciano sulla mia impotenza improvvisamente evidente, insuperabile.”

C’è un’unica risposta, ed è la stessa scandalosa risposta che duemila anni fa portò un altro uomo a morire come un criminale: non si ama per essere amati, si ama e basta, perché l’amore si alimenta nel dare, non nel ricevere.