lunedì 12 maggio 2008

L'uomo tutto intero, di Elena F. Ricciardi

“Il Mistero non è mistero provvisoriamente. L’Altro è Altro per sempre. Se cessasse di esserlo, come amarlo in assoluto?”
“Dio è un eccesso di amore ma non si guarda amare”.
(Francois Varillon, L’umiltà di Dio)

Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9)

Che Fabrizio Centofanti scriva bene non lo dico io, lo dicono le pagine di questo libro di racconti, distese e intricate come la migliore partitura contrappuntistica baciata dal miracolo, dal fuoco della visione/ispirazione che non è mai altro dalla vita in sé così come sgorga dal tempo e dalla storia pur provenendo da chissà quali mondi dell’altrove. Lo stile è piano, limpido, preciso fino al millimetrico dettaglio di una virgola su cui posare per un momento il fiato e riprendere, affondandovi gli occhi fino nei recessi più profondi del cuore, la lettura.
Non avventuratevi fra queste pagine se non siete pronti ad affrontare il fuoco di una passione dirompente e confessata: “Anche la mia vita bruciava ogni energia con la potenza del vulcano, ma in un moto verso il basso, verso il fondo, alle radici“; eppure trattenuta, come una vela opposta al vento che la gonfia allo spasmo, sempre sull’orlo dello strappo. Non avventuratevi in questa molteplice storia se la vostra immagine della fede corrisponde ai santini che si vendono fuori dei santuari. Nel caso, però, voleste conoscere un altro mondo, un altro modo, un altro passo sulle orme dell’umano allora questo è il libro che forse attendevate da tempo.
L’autore ha metabolizzato bene la lezione del suo dichiarato maestro, Italo Calvino: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità: “La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare con i suoi mezzi specifici” (da Lezioni Americane). Valori e qualità che avrebbe voluto traghettare nel nuovo millennio, le ritroviamo, in uno stile tutto personale, in queste brevi e intense pagine. Anche Fabrizio crede che ci siano cose che solo la letteratura può dare, del resto è un profondo conoscitore dei Vangeli, che sono in prima battuta una narrazione, una storia, il racconto di una vita intessuta di storie fra le più diverse ed è per questo forse che non pensa a Calvino mentre il ticchettio della tastiera accompagna il dipanarsi dei suoi racconti. Calvino è la trasparenza dello stile e la domanda ribattuta e insistita su quale sia il crinale giusto della vita e se la verità non stia per caso fra le pieghe, negli interstizi delle cose e delle storie, sull’orlo del confine, mai definito in modo netto, della luce e dell’ombra: “Chissà come sarebbe stata la mia vita se avessi proseguito nell’altra direzione, avrei conosciuto il rovescio di tutto quello che successe“, perché la realtà non è lo stesso della verità. La verità è una mentre il reale è molteplice come molteplice è l’interpretazione di sé e di coloro che ci vengono incontro, come un infinito gioco degli specchi in cui spesso “Tu sei me” perché davvero in questa storia terribile e bellissima nulla di umano è lasciato al margine. “Parlavamo dei desideri opposti che sentiva combattersi dentro come due pugili indomabili [...] Filippo mi guardava: le nostre storie s’incrociavano come i fari sfreccianti sulla strada, sarebbe bastato un niente per uno scontro frontale“, ma la trama di queste storie, di questa vita che, come l’altra, incontra molteplici storie, è intessuta di altri fili, di altre trame, di altri nodi stretti all’ordito di una risposta data e ricevuta, al telaio di un unico fatto certo, sebbene inspiegabile: la vocazione, la risposta a una domanda inaudita, alla proposta espressa da quel silenzio che abita il cuore di chi cerca: ” Don Mario non raccontava mai dei suoi eroismi, ero io il testimone di vicende al limite delle possibilità umane e se ora scrivo queste note è perché sia chiaro che l’uomo non è solo malavita e prostituzione d’ogni genere, ma anche lunghe notti di emorragie intestinali per portare i soldi necessari a un povero Cristo“. E allora gli uomini e le donne di questa storia unica fatta di storie che si incontrano per provvidenza o destino tutte in un punto sperduto della periferia romana, stanno tutti, ciascuno col suo carico di vita e di-sperata-speranza, dentro una domanda che diventa ascolto, la domanda che ciascuno si sente fare quando incontra il prete della storia : “Come stai?“.
Anche il lettore si sente interpellato: “Come stai?”
Si, perché non possiamo incontrare suor Luigia, Agatino, il barbone,Turi, Antonio, il drogato, la prostituta, l’ombra del piromane che bruciò don Mario e tutti i colori perseguitati dall’ombra, eppure sempre alla ricerca della luce di cui questo libro è fatto, senza sentirci parte con essi, senza sentire l’esigenza di dare una risposta, senza percepire nel profondo che quella pietra che così spesso ci grava sul cuore, piano piano si scioglie e quel freddo nel quale ci nascondiamo come embrioni congelati in attesa di vedere la luce, lascia la sua presa mortale e si trasforma in un ventre materno e caldo, in un abbraccio capace di accogliere l’uomo tutto intero anche quando non riusciamo a capire come si possa amare così:
“Quando don Mario mi chiese come stai?, mi accorsi non subito, diciamo lentamente, ma sempre di più, che le dieci Ceres erano un ricordo del passato, di fronte agli occhi aperti di don Mario, aperti in tutti i sensi, come quelli di Anna, come quelli di tutte le creature che abbattono l’ultimo steccato e passano avanti in quel regno dove si entra senza trucchi, anche se sei un drogato o una puttana, anche se la notte, con la sua faccia scura, ti guarda con uno strano senso di pietà”.

Elena F. Ricciardi