martedì 27 maggio 2008

Giorgio Morale

Caro Fabrizio,
ho appena finito di leggere il tuo Guida pratica all’eternità. Non vorrei al momento analizzare l’opera dal punto di vista estetico-stilistico: esso fa parte dell’educazione e della sensibilità del Narratore che nel libro dice “io”; ma sintetizzo quello che potrei dirne con le parole di Giovanni Nuscis: “L’esattezza, la leggerezza e la rapidità calviniane nel descrivere sono qualità evidenti di questa scrittura”.
Hai scritto un libro di racconti brevi, ma con una struttura salda e ben costruita. In apertura hai posto un preambolo, il racconto L’editore, una sorta di protasi in cui dichiari la tua fiducia nei racconti “leggeri e discreti”, che “passano quasi inosservati, ma gettano semi di storie che qualcuno raccoglie e fa fruttare altrove”. Cominci quindi con Scacchiere, in cui presenti il te stesso di anni fa a un bivio, alle prese con la scelta tra l’accademia letteraria e la vocazione religiosa.
Poi prosegui con racconti disposti secondo una progressione romanzesca, che io assimilerei alla tipologia del viaggio iniziatico. Poco importa se a muoversi non è il protagonista, ma le varie figure che vanno a lui: l’io viaggia trasferendosi in loro. È l’io di Fabrizio Centofanti attore e narratore che fa da filo d’unione, ritraendosi dietro le quinte nei vari incontri, per venire in primo piano alla fine.
Naturalmente per noi occidentali il viaggio iniziatico per eccellenza è la Commedia dantesca, il cui modello mi pare di vedere in filigrana anche in questo libro. Infatti cominci l’opera con incontri da Inferno contemporaneo: disoccupati, ladri, barboni, prostitute, drogati, ubriaconi, con don Mario come un novello Virgilio a farti da guida. Poi c’è il Purgatorio di figure troppo prodighe, supponenti, inflessibili, dogmatiche. E infine il tuo Paradiso: la tua fede, la messa, la celebrazione eucaristica. Proprio queste ultime sono tra le pagine più coinvolte e coinvolgenti, in cui tu pellegrino lasci anche la guida di don Mario per affrontare da solo il tuo compito, e diventare uno dei personaggi, accomunato agli altri dalle tue povertà, i tuoi dubbi, le tue paure.
Come spesso avviene alla fine di una recherche, la rivelazione cercata è la più semplice che si possa immaginare: al fondo di tutto si trova se stessi, la propria immagine, la propria vocazione: “la vocazione, è nata da una luce improvvisa, mentre prima sembrava tutto grigio” (nel racconto Il canto del gallo). Così si chiude il cerchio aperto con Scacchiere.
Insomma, non voglio fare un’analisi del libro, Fabrizio, quello che mi preme dirti, a libro appena concluso, è che hai sortito l’effetto che alcune opere sortiscono: fare desiderare la condizione del personaggio-Narratore: sì, in alcuni momenti ho desiderato essere te, per poter avere un’esperienza grande come la tua delle sofferenze umane.
L’attenzione per i poveri e la sofferenza presente nei tuoi racconti mi fa venire in mente alcune parole di Flannery O’Connor: “Se vuoi scrivere racconti, non scacciare i poveri dalla soglia di casa… i poveri hanno meno bambagia a proteggerli dalla brutalità della vita… il romanziere li avrà sempre con sé, perché riesce a trovarli ovunque… agli occhi del romanziere siamo tutti poveri, e il povero soltanto simbolo della condizione di tutti gli uomini… Il mistero dell’esistenza traspare sempre dal tessuto delle loro vite ordinarie” (da Nel territorio del diavolo).
Tu protesti perché “Vogliono un prete senza errori. Una macchina infallibile”. E racconti di una signora che viene in sacrestia a dirti: “Don Fabrizio, devo dirle una cosa, anche se so”. Che cosa? “So che è comunista”. Forse perché dici sempre che “sui pani hanno sbagliato operazione: condividere, non moltiplicare”. Perché dici che “La forma perfetta è la faccia dei poveri. Ossimoro vivente: la mancanza di tutto e la pienezza” (nel racconto La forma perfetta).
Ma non vedo che errore ci sia in questo. Tutto questo è strettamente legato alla tua fede, credo infatti sia vero quanto dice ancora Flannery O’Connor: “Più intensa è la luce della fede, più evidenti saranno le storture che lo scrittore vede nella vita attorno a sé”. E inoltre: è necessario, queste storture, “farle apparire come storture a un pubblico abituato a considerarle naturali”.
E questa è anche la mia esigenza. Pertanto ti ringrazio di questo libro e ti abbraccio.
Giorgio