lunedì 26 gennaio 2009

Gianmario Lucini

Nota di lettura 

Mi perdonerà Fabrizio se nel mio immaginario colloco i suoi brevissimi ma densi racconti come un oggetto anomalo a metà strada fra Antologia di Spoon River di E.L. Masters e Il diario di un curato di campagna di Georges Bernanos, che peraltro ho letto più di trent'anni or sono – e dunque, più correttamente, dirò che è a quell'atmosfera che mi ricollego. Lee Masters era sindaco a Spoon River, Fabrizio è prete nella periferia romana. Due figure che, messe a contatto con la gente, ne hanno subito il fascino, per molti aspetti in modo simile. La prosa di Centofanti, essenziale ed asciutta, non è peraltro neutra. Il suo obiettivo è l'immedesimarsi nelle situazioni, una ricerca di empatia con i suoi personaggi, senza giudizi e senza accuse. Campeggia la figura di don Mario, l'uomo burbero folle di carità, poeta a suo modo del suo ruolo (che in qualche modo è pubblico e anche istituzionale) che lo espone ai rischi delle situazioni relazionali più difficili, pagate duramente (è lui il prete bruciato, ossia cosparso di liquido infiammabile da alcuni balordi e acceso come un cerino) e vissute nascostamente e umilmente: un prete decisamente anomalo (non illudiamoci che tutti i preti siano così, ma riconosciamoli quando lo sono...), direi milaniano, che evidentemente ha colpito la sensibilità di Fabrizio, che ne subisce il fascino e la lezione morale (io stesso ho intravisto don Mario e gli ho stretto la mano: un uomo che lascia un ricordo anche solo con un saluto). Poi ci sono le figure protagoniste, figure vere e storiche. Io stesso ho infatti conosciuto i "barboni" che ogni giorno stanno davanti alla canonica di don Fabrizio e sul sagrato della chiesa.
Dunque nel libro non c'è nulla di inventato. I suoi protagonisti, tratteggiati con grande partecipazione empatica, si possono incontrare ancor oggi, morti a parte che "dormono sulla collina". I personaggi, a ben vedere, sono ancora quelli dei romanzi di Pasolini, quelli che troveremo sempre nelle periferie romane sin quando ci saranno le periferie, l'ingiustizia e la piaga della sottocultura di massa.
Una nota ancora sulla prosa di Centofanti, essenziale, scarna, antiretorica. L'unico sobrio vezzo letterario che l'autore si concede sono alcuni castigatissimi spunti descrittivi, che peraltro servono da filo rosso per infilare riflessioni e considerazioni, per dare insomma corpo al racconto ancorandolo ad immagini e situazioni. E' un modo di raccontare insolito, a volte connotato di un certo "gergo" parrocchiale (si potrebbe dire, con una battuta che l'autore mi passi, una "deformazione professionale"), ma penetrante e convincente, che punta subito a un nocciolo, a un senso, a una concretezza che ha in sé le ragioni del suo proporsi e quindi non necessita di artifici letterari, di enfasi, di retorica o di altri stratagemmi per farsi apprezzare. Ma voglio qui proporne un esempio, che spiega meglio delle mia parole le sue ragioni. Uno dei ventidue brevi racconti (di due, massimo quattro pagine) tratto dal volumetto di Fabrizio Centofanti.

Come un film

Mario era un caratterista, viveva di cinema. Aveva imparato tutti i trucchi della recitazione, cosa che gli era poi servita nella vita, perché traeva spesso dal cilindro soluzioni d'emergenza imparate sul set. Le sue giornate procedevano senza troppi scossoni, con le piccole soddisfazioni che, in genere, riempiono il tempo, anche se qualcosa manca e s'intuisce che l'andirivieni delle ore potrebbe portare da un momento all'altro la novità che fa saltare le abitudini. E così fu.
La novità gli si presentò sotto forma di grande amore, una donna russa di nome Tatiana, che lo scombussolò tutto. Il lavoro gli sembrava, adesso, un'altra cosa: la recitazione era sentita, spontanea, come se sgorgasse direttamente dal cuore, con una forza mai sperimentata. Quando Mario tornava a casa, non gli sembrava vero che gli venisse incontro questa figura bionda, alta, pronta ad abbracciarlo e capace di trasformare in sogno le ore della sera, al punto che non capiva come prima si potesse accontentare di quella cosa che chiamava vita. Facevano presto a ritrovarsi avvinghiati l'uno all'altra, come se Mario avesse paura che il sogno gli sfuggisse, che un genio cattivo, geloso della sua gioia, gli strappasse dalle braccia il più bel film della vita. E così fu.
Quella sera, tornando a casa, sentiva di dover fare in fretta, come quando gli davano una parte all'ultimo momento, e lui passava la notte a ripetere gesti e parole del copione, tra caffè e zollette di zucchero per restare sveglio. Alle prove arrivava distrutto, con un senso di nausea per la vita, per il tempo. Quello stesso senso di nausea che lo prese quando, aperta la porta, non vide la donna che gli correva incontro ad abbracciarlo.
Cominciò ad attaccarsi al telefono, finché apprese l'unica notizia che non avrebbe mai accettato, l'annuncio che aveva gli occhi del genio cattivo, geloso della sua gioia spropositata. «Dev'essere stato uno scontro frontale, inaspettato». Sul tavolo dell'obitorio, di Tatiana restava una carne martoriata in cui Mario cercava di riconoscere la novità che gli aveva rivelato l'altra faccia delle sere malinconiche e banali; ma di questo non vedeva nulla in quel corpo deforme e insanguinato. Non voleva, non poteva reagire a questo evento.
Fu allora che cominciò a bere. Non so come finì da noi: era alto un metro e 75, capelli brizzolati, cinquant'anni passati da poco. Forse approdò qui come tutti i relitti provenienti dallo spazio sconfinato della disperazione umana. Forse perché noi stessi eravamo relitti che la corrente cosmica trascinava in questo posto, e fra relitti ci si poteva guardare negli occhi e riconoscersi.
Don Mario lo accolse, come sempre faceva, gli cedette il letto e dormì per quattro anni sul divano. Mario non sembrava particolarmente grato di questo privilegio. Al vino non rinunciava in nessun modo: il prete faceva di tutto per tenerlo lontano, ma lui escogitava trovate rocambolesche, che aveva imparato negli anni in cui lavorava da caratterista.
Quando don Mario trovava in casa una bottiglia, o addirittura casse intere di Sangiovese da supermercato, faceva delle scene sempre più violente, che l'altro, tuttavia, digeriva con disinvoltura, come stesse godendosi gli effetti speciali di uno dei tanti film sulle catastrofi. Si rendeva conto che la sua esperienza gli serviva a questo: vedere in ogni cosa il lato di arte, di finzione, come se l'indignazione più giustificata contenesse un rovescio di posa, di lavoro su se stessi, per apparire credibili e aumentare la fila al botteghino.
La sua abilità consisteva nel trovare sempre nuove ragioni con cui convincere le persone a rifornirlo di alcolici. Il bello era vedere come i parrocchiani, pur catechizzati, cadevano regolarmente nel tranello: nel momento in cui Mario cominciava a parlare, partiva un film che inscenava una vita parallela, quella che Mario s'inventava perché le sue giornate non tornassero al grigiore intollerabile della sua esistenza precedente l'incontro con Tatiana.
La vita parallela era questo suo continuo pensiero per l'amante russa, per cui, qualunque cosa facesse o dicesse, l'immagine che scorreva al di sotto era quella della donna alta e bionda che lo abbracciava al suo ritorno a casa, e restavano così, per ore, avvinghiati l'uno all'altra, a causa della sua invincibile paura del genio cattivo che avrebbe potuto portargliela via, come in effetti era avvenuto.
La questione si aggravava per il fatto che il prete e l'alcolista avevano lo stesso nome. Quando arrivavano le telefonate e dall'altro capo del filo chiedevano: «Don Mario?», Mario rispondeva: «Sì, sono io», e intavolava lunghe discussioni come se il prete fosse lui. Una volta, il parroco gli sentì pronunciare questa frase: «Signora, le posso assicurare che la confessione sacramentale è stata abolita». Don Mario non ci vide più: gli fece la scenata più terribile della sua vita, ma il caratterista lo contemplava con un'aria beata, come davanti allo schermo gigante del Warner Village di Ostia Lido.
Continuarono così, fino alla fine. Mario a raccontare balle per ritrovare il colore della sua Tatiana, don Mario a rigirarsi sul divano in cerca di una soluzione. Un giorno l'attore era agli sgoccioli, e accettò di ricoverarsi in ospedale. Non era mai successo. La condizione era che il prete gli facesse compagnia. Prima di morire, Mario chiese a don Mario un bicchier d'acqua: non l'aveva mai fatto da quando Tatiana se l'era portata via il genio geloso della sua fortuna. Il sacerdote raccolse l'ultimo respiro: aveva perso l'odore dell'alcol, sapeva già di un mondo dove nessuno ti sveglia per darti una terribile notizia, dove la sera non è mai banale e la malinconia è il ricordo di un'avventura digerita facilmente, come un film.