giovedì 31 luglio 2008

Antonio Sparzani


Non so se si tratta di una guida pratica all’eternità, certo è una guida a conoscere un mondo complesso e quotidiano, intriso di fantasia e di cruda realtà, di metafore ardite e di torte di fango.
Una ventina di racconti. Brevi, esili, sembra, però dei flash, accesi per un attimo su un intrico di realtà, che si srotolano alle porte di Roma, intorno a quella stazione che vedete nell’immagine.

Sullo sfondo di tutto sta la costruzione di un centro per i giovani, meglio se sfigati assai, e la presenza di un sacerdote eccezionale, ovunque nominato come don Mario, che questo centro ha voluto e ottenuto con un’energia e un coraggio incredibili.
Fabrizio Centofanti, tra autobiografia e metafora, ci infila a poco a poco in questo mondo, senza pesantezze e senza trattati, ma con mano sicura, forte di una vita spesa senza risparmio vicino a realtà al di là di qualsiasi border-line.

Per capire chi sia questo don Mario, nume sullo sfondo – o forse davvero in primo piano – in tutti i racconti, basta leggersi la storia di Agatino.

«Agatino era un uomo del buio, e veniva nel mondo della luce solo per causa di forza maggiore, per sbarcare il lunario con le sue incombenze da fattorino fuori sede.»
«Un giorno, una beghina della parrocchia chiese di una persona che potesse lavorare nel giardino. Don Mario si rivolse ad Agatino, nella speranza che potesse farcela; lui si mise a dormire su una sedia a sdraio e pretese, alla fine, di essere pagato, senza aver mosso un dito. La donna s’infuriò e cominciò a urlargli sulla faccia. Agatino le rispose per le rime: “Zoccola, zoccola!”. Lei, figùrati, che zoccola non gliel’aveva detto mai nessuno, andò di corsa dal parroco a gridare: “O lui o io!”. Don Mario disse: “Lui”. Quando don Mario rispose : “Lui”, l’anziana signora sbiancò, incredula.»

Fabrizio abbozza così i personaggi, e abbozza anche se stesso, anche il se stesso di prima della vocazione, l’italianista con davanti una promettente carriera da un lato e dall’altro il ragazzotto tutto Ceres e desiderio, e corse in macchina sui litorali lunghi e diritti del Tirreno. Tutto visto come attraverso il velo di una lieve foschia, metafora di un passaggio, un vero salto di vita, una metamorfosi che ha preso la vita di Fabrizio e l’ha rigirata, mantenendone tanti elementi ma dando ad ognuno di essi un angolo di prospettiva del tutto nuovo.

Non tutto è stretta autobiografia, nel primo racconto parla in prima persona un editore straricco che adora i libri, ne ama l’odore, la forma, eccetera, ma ad un certo punto qualcosa d’altro spunta: «Forse anch’io, più che desiderare di abitare, abito davvero le pagine di un agile racconto, mi aggiro tra le righe come la proiezione idealizzata dell’autore….», spunta cioè anche qui un’anima di Fabrizio, una delle molte componenti della sua complessa personalità.

C’è la storia di Mario, caratterista di cinema, che un giorno trova l’amore della sua vita, una donna russa con la quale nasce e s’ingigantisce un rapporto di straordinaria passione e di amore totale, troppo rapidamente troncato da un incidente di macchina che si porta via la ragazza. Mario si dispera, beve e beve e beve e non smette finché si rifugia dal suo omonimo sacerdote che lo accoglie senza discutere come sempre: si instaura tra i due un rapporto nel quale l’uno cerca in ogni modo di bere e l’altro cerca di limitarlo; è perfino divertente, nella sua tragicità, la descrizione dei trucchi che Mario inventa per procurarsi la bottiglia. Continua così finche Mario muore, come era ovvio – l’unico momento in cui chiede un bicchier d’acqua.

Inutile descrivere altri esempi e casi, son tutti diversi l’uno dall’altro, e anche tanto uguali nella densità di una partecipazione vera ai destini di diseredati di ogni tipo, in mezzo ai quali l’autore riesce ad essere, come raramente, con la persona e con la penna.