sabato 23 agosto 2008

Giuseppe D'Emilio e Arturo Fabra

Giuseppe D’Emilio e Arturo Fabra recensiscono Guida pratica all’eternità di Fabrizio Centofanti; segue un’intervista all’autore.

Non è facile aggiungere qualcosa a quanto è stato detto, spesso benissimo, da altri recensori di questa raccolta di racconti, i cui interventi sono disponibili sul blog dedicato al libro; perciò, ogni tanto, attingeremo…

Uno di noi è felicemente ateo, l’altro felicemente cattolico; interessante, quindi, almeno per noi, analizzare insieme il libro di un prete (in questa antologia si usa spesso la parola prete, nonostante oggi le si preferisca sacerdote, che pare abbia un che di meno dispregiativo).
L’autore, Fabrizio Centofanti, infatti, è un prete, un prete che ha cose da raccontare, e che sa farlo bene.
E, come afferma Riccardo Ferrazzi nella postfazione: Fabrizio Centofanti è un sacerdote, ma, grazie a Dio, non ci riempie le orecchie con quella oratoria melliflua e democristiana che fa venir voglia di correre a prendere la tessera del PCUS.
E, aggiungiamo noi, non pare nemmeno uno di quei preti, forse ancor più fastidiosi, che ostenta ad ogni occasione “modernità”, anticonformismo di maniera.

Ma partiamo dalla scrittura.

Prevale la paratassi, lo stile è piano, ma, come sa chiunque abbia un po’ di familiarità con lo scrivere, uno stile apparentemente “semplice” è quello più “difficile” da realizzare, più impegnativo. Lo si comprende anche dal fatto che ogni parola è “pesante”, densa di significato, “studiata”, evidentemente.

Bene quindi ha fatto Elena F. Ricciardi a scomodare per Centofanti le Lezioni americane di Calvino; e Centofanti stesso, nell’intervista che segue, indica in Calvino un suo punto di riferimento.

E Giovanni Nuscis osserva:
Dopo la lettura dei primi racconti ci sovvengono alcune voci note: “descrivi il tuo villaggio e sarai universale” (Tolstoi), “parla solo di ciò che conosci” (S. King), “descrivi e non fare il furbo” (Puskin). Ebbene, l’autore, queste voci – e non solo queste - sembra averle ascoltate tutte. Il villaggio è la parrocchia. Le persone che ci vivono o ci gravitano sono i protagonisti di queste storie spesso disperate. L’esattezza, la leggerezza e la rapidità calviniane nel descrivere sono qualità evidenti di questa scrittura.

I racconti, che parlano di disperati, di alcolizzati, di drogati, di emarginati (di “ultimi”, insomma), sono brevi, fulminanti, ma fatti della luce di quei fulmini che lampeggiano lontani nelle notti estive. E a volte Centofanti, in questa ricerca di essenzialità, è aforistico: offre frasi che verrebbe voglia di sottolineare, come si faceva da adolescenti.

I finali sono “naturali”, non enfatici, un acuirsi inevitabile e non una forzatura della narrazione volta a stupire con effetti speciali, a spiazzare a tutti i costi. E, cosa non certo secondaria, si nota una conoscenza vera, non letteraria e ricostruita, del dolore del mondo.

Per quasi per tutti i personaggi di questi racconti la felicità è rinviata all’Aldilà, all’eternità, appunto.
Viene in mente il Manzoni del non resta/che far torto, o patirlo. Ci pare, questa, una possibile chiave di lettura dell’antologia.

La fine, la morte, è accettata non con stoica rassegnazione né con epicurea ineluttabilità; se la vera vita è quella eterna, appunto, è meglio morire prima possibile, per tutti; e al lato ateo di noi due è sempre parsa assurda la parte superstiziosa della religione cattolica, quella che lucra sulle disgrazie per rimandarne l’esito finale, quella, per dirla con Foscolo (ma come siamo ottocenteschi, oggi…) della “venal prece”.

Del resto, in un racconto si legge che quella del mondo è una “felicità illusoria”. Il regno dei cieli, appunto…

Spesso, nei racconti è presente un personaggio: don Mario; come spiega la nostra cara amica Ramona Corrado, si tratta di:

un altro prete, pure lui di strada, un prete sui generis dalle poche parole, molte sigarette e moltissimi fatti. È stato lui a indirizzare l’anima sbandata di un giovane all’epoca alle prese con un dolore immenso e inconfessabile. È stato lui a insegnare a quel giovane a tendere le mani per dare e non per chiedere, e a mettere a disposizione la propria vita per quella degli altri. E non solo in senso figurato.
Don Mario Torregrossa infatti è stato realmente vittima di un folle che gli ha appiccato fuoco, lasciandolo a combattere a lungo tra la vita e la morte, fino a rimanere invalido per sempre
.

La triste vicenda umana di quest’uomo porterebbe facilmente a seguire tentazioni di stucchevole agiografia, ma Centofanti riesce ad evitare questo rischio.

Ma ascoltiamo l’autore…

Sono molti i fili che uniscono i racconti del libro. Uno è decisamente la morte intesa come ingresso all’eternità.

Sì, un motivo è senz’altro quello della morte che non solo non costituisce la fine della storia, ma in un certo senso ne è l’inizio. È come se ci si svegliasse a una dimensione sulla quale l’uomo, con i suoi egoismi e le sue violenze, non ha più potere. Il povero non può essere ignorato o maltrattato, il deviante non può essere giudicato. In questo risveglio l’elemento decisivo è l’apertura del cuore, l’accoglienza di qualcosa che ci viene dato senza alcun segno di contropartita, solo perché siamo noi, e abbiamo accettato di essere noi stessi fino in fondo con i nostri difetti e le nostre stranezze: Agatino (il protagonista di uno dei racconti, ndr) è l’emblema di un mondo rovesciato che superficialmente si giudica maledetto, e che invece è visitato dolcemente da Dio. Questo elemento potremmo chiamarlo speranza: niente di astrattamente teologico; solo la certezza che sono degno di essere amato, chiunque sia e qualunque forma abbia la mia vita. L’eternità è per chi crede che anche una lacrima ha un senso forte, suscita un sentimento riconoscibile nel cuore di Dio.


Infatti insieme a questo “strano” concetto di morte è altrettanto bello quello di amore che viene fuori dai racconti, vero?

Come preti facciamo una vasta esperienza della depressione umana. L’essere umano è depresso perché non riceve attenzione, perché passa inosservato. Questa è un’ingiustizia somma. Nessuno è così abietto o così insignificante da non meritare lo sguardo dell’altro. Sentirsi guardati, presi in considerazione, sentire l’attenzione che si concentra su di te, rinfranca finalmente il cuore, fa vivere l’esperienza della seconda nascita, ossia l’accorgersi di essere amati. La vita comincia solo in quel momento.


Spostiamoci al versante letterario, ora. Lo stile dei racconti è intriso di influenze fantastiche più che trascendentali, tanto che alle volte pare di leggere Buzzati. È un’ impressione errata?

Il mio maestro è Calvino. Quando l’ho incontrato ho capito cos’è la letteratura e soprattutto quale può essere la sua funzione. Calvino si sofferma su ogni parola, non lascia nulla al caso. È quell’attenzione di cui parlavo prima. Una parola può essere la chiave per aprire un mondo. Ma, come ogni chiave, dev’essere perfetta, ogni piccolo errore può renderla inefficace, impedire l’accesso. La letteratura insegna che il linguaggio è una cosa seria, come la vita. Guai a perdere un dettaglio, rischia di sfuggirti il senso. E il senso, nella vita, è tutto.

Quanta di questa attenzione alla parola può essere attribuita all’importanza che La Parola ha nella vita di Fabrizio Centofanti?


Tutto nasce dalla Parola. È Dio che mi insegna ad ascoltare il ritmo della vita e del linguaggio, lui che si ricorda di me, e mi parla. L’ascolto è anche la costruzione del discorso, la disposizione delle parole, la scelta del singolo termine. Più si ama, più si scende nel dettaglio. La teologia è necessariamente anche filologia, studio appassionato di un testo che rivela sempre nuove sfumature. La grammatica della lingua corrisponde alla grammatica della vita. C’è un passaggio segreto che le mette in comunicazione e questo passaggio è l’ascolto, il ricordo dell’altro.

Dunque la scrittura, e non solo la lettura può diventare una Guida Pratica All’Eternità, un’abitudine al Bello come viene inteso in La Poesia e Lo Spirito, il sito di cui Fabrizio Centofanti è creatore/redattore.

Sì, anche la scrittura insegna cosa dire, perché l’eternità ha le sue parole, come ha i suoi fatti. Ci sarà chiesto conto di ogni parola perché nessuna parola può essere privata del suo senso. La scrittura diventa guida alla bellezza, ma è la bellezza dell’eternità, di quella vita che ha dentro un germe che non muore. Da questo punto di vista, la letteratura entra a pieno diritto nell’ambito del sacro: teoricamente, ogni scrittura è una scrittura sacra, se si lascia guidare dal creatore della bellezza. Se si va al fondo della poesia, si trova Dio.

Fabrizio Centofanti è laureato in Lettere moderne con una tesi su Italo Calvino. Sacerdote diocesano a Roma dal 1996, opera soprattutto nel campo della spiritualità e dell’approfondimento della Sacra Scrittura. Ha pubblicato un volume su Calvino (Una trascendenza mancata, Istituto Propaganda Libraria, 1993) e uno su Rebora (Il segreto del poeta. Clemente Rebora: la santità che compie il canto. L’immagine interiore dagli appunti sul messale, Milano, Istituto Propaganda Libraria, 1987) oltre a numerosi saggi e articoli di natura letteraria. Nel 2005 è uscito il volumetto Le parole della felicità, edito dalla Laurus Robuffo. Del 2008 è il libro di racconti Guida pratica all’eternità, Effatà editrice, Torino.

Descrizione del volume

* Titolo: Guida pratica all’eternità. Racconti fra cielo e terra
* Autore: Centofanti Fabrizio
* Editore: Effatà (collana Il piacere di leggere)
* Data di Pubblicazione: 2008
* ISBN: 9788874024230
* Numero pagine: 96