lunedì 30 giugno 2008

Marco Guzzi

Carissimo Fabrizio,
grazie del libro che mi hai inviato e che sto leggendo con gusto e con pazienza. Senza fretta cioè, un racconto o due per volta.
Sembrano a volte brevi parabole contemporanee, sempre pregne di insegnamenti, attinti però dalla semplicità delle storie più feriali, come Polvere, ad esempio: il disegno preciso e insieme misericordioso di un carattere e di un destino.

Ciò che in particolare mi interessa è la visione generale del fare poetico che mi sembra soggiaccia a tutto il tuo lavoro, e cioè la preminenza della vita sulla letteratura.
Non a caso in Scacchiere parli di Rebora che seppe rinunciare perfino alla poesia "vincendo l'ultima partita con uno scacco matto all'Avversario". La scrittura infatti può diventare idolatria.
Leggiamo a volte veri e propri deliri sul ruolo del poeta, senza che si comprenda il senso autentico di questa vocazione, e cioè la diaconia nei confronti di una Parola che è più grande di noi e che solo nella più umile vita concreta, e nel servizio, trova la sua più piena incarnazione.
Ecco, nei tuoi racconti si sente che per te la scrittura è al servizio della vita e non viceversa.
Speriamo che questa Guida pratica possa raggiungere molti viandanti e molti dispersi.

Un abbraccio grande e affettuoso
Marco Guzzi

giovedì 26 giugno 2008

Paolo Cacciolati

Ho poco da aggiungere, rispetto a chi mi ha preceduto, sui racconti che compongono questa raccolta di Fabrizio.

Io leggo, leggo questo libro arrivato a casa mia per vie non solo postali, leggo molte altre cose, forse troppe cose, e mentre leggo faccio una fatica (quasi sempre) bestiale a recuperare un senso, anzi il senso, delle pagine aperte davanti a me. Tutto (o quasi) mi sembra inutile, già letto e già detto. Tranne in qualche caso. Uno di questi è il libro di Fabrizio. Limpido, nella predisposizione alla ricerca di eternità, come suggerisce il titolo, ma eternità per chi? per i protagonisti dei racconti? per i lettori? e per l'autore? Chi è Fabrizio Centofanti? E' un prete? E' uno scrittore? E' uno che combatte ogni giorno contro tremendi mulini a vento? O è semplicemente un uomo, come tutti noi, che cerca anche per sè, oltre che per gli altri, una via per l'eternità? Ecco, vorrei mettere l'accento su quest'ultimo punto, perchè mi piace leggere questo libro non tanto come una raccolta di racconti, quanto come una specie di romanzo di formazione, composto sì da tanti episodi, da tante particelle diverse che sono le persone e le storie di cui ci parla, ma che alla fine si riassemblano in un unico mosaico il cui disegno complessivo è dato dalla tensione dell'autore verso il proprio, lo sottolineo, il proprio, percorso per l'eternità. Percorso condiviso, comune, ecumenico, tutto quello che vogliamo, ma secondo me prima di tutto suo, nella sua unicità di uomo, come tutti noi. E proprio qui sta il bello, perchè altrimenti, se leggessi questo libro "solo" come una testimonianza e non come una dolorosa ma necessaria bildungsroman (ecco, l'ho scritto, chè quando si parla di romanzo di formazione mica uno può esimersi dall'usare cotanto parolone), faticherei ad avvertire la pacifica potenza della scrittura di Fabrizio, a decifrare quella corrente sotterranea che attraversa l'anima dei protagonisti di queste storie.

Un supporto a questa lettura, me lo fornisce lo stesso Fabrizio quando, presentando il libro, dichiara:"prima si raffigurava Dio come un grande occhio in un triangolo, si voleva dire che siamo sempre sotto controllo, anche quando nessuno ci vede. Secondo me, bisognerebbe invece raffigurare Dio con l’immagine dell’orecchio: è uno al quale puoi finalmente raccontare la tua storia, uno che ti ascolta, e ascoltandoti guarisce le tue ferite. Il giudizio finale me lo immagino così: un grande libro di racconti, in cui non c’è più nessuno che ti giudica, ma solo un orecchio attento e partecipe, che cura i tuoi traumi, e libera finalmente le tue energie. La verità, insomma, sarebbe ancora una volta nel rovescio delle cose."

Non a caso, secondo me, Fabrizio ha scelto di riportare questa immagine dell'ascolto, quasi che chiedesse al lettore di "sostituirsi", nel suo piccolo, per l'istante della lettura, all'orecchio divino. Spero di non esser stato blasfemo, in quello che ho appena scritto, ma non mi pare di passare per eretico o dissacrante nel dire che questo libro e coloro che lo leggono consentono all'autore di trovare un medium terreno nell'ascolto della propria ricerca di eternità, anche tramite queste storie degli ultimi.

Per il resto, non ho molto altro da aggiungere alle bellissime cose che sono già state scritte su questa Guida pratica all'eternità.

Aggiungo solo che avrei visto bene in prima pagina, oltre all'introduzione di Remo Bassini, questa citazione dai Pensieri di Pascal:"Quando considero la brevità della mia vita, inghiottita com'è nell'eternità che la precede e che la seguirà, lo spazio minuscolo che io occupo e che è a me visibile, gettato come sono in una vasta infinità di spazi di cui non so nulla e che nulla sanno di me, mi spavento e mi stupisco di trovarmi qui anzichè là, e ora anzichè allora. Chi mi ha posto qui? Per ordine di chi e in virtù di quale destino guida mi è stato assegnato questo tempo, questo luogo?"

Insomma, in queste parole di Pascal io ravviso una formidabile chiave di lettura per questa guida all'eternità.

mercoledì 18 giugno 2008

Ramona Corrado

Ho letto qualche giorno fa questo libro.
E poi l’ho riletto, con calma e attenzione.
La prima volta l’ho bevuto, la seconda l’ho assaporato.
Poi l’ho ripreso ancora in mano. Colpita ed emozionata.

È un libricino piccolo, quasi tascabile, vestito di uno splendido sole giallo griffato Van Gogh (Seminatore col sole che tramonta, Vincent Van Gogh, 1888), che sembra fatto apposta per infondere ottimismo e speranza. Nonostante.
È un libricino dal costo contenuto, appena 9 euro, quasi non osasse chiedere di più per pudore… costa niente in confronto ai nomi più o meno altisonanti riposti sugli scaffali delle librerie.
Ma io non l’ho comprato.
L’ho avuto in dono.
Con un gesto straordinariamente gentile me lo ha regalato l’autore, don Fabrizio Centofanti, anticipando la mia volontà di ordinarlo online.
Ringrazio ancora il Fabry, come lo chiamano gli amici, per avere pensato a me.
Mi piace pensare, con una leggera presunzione, che questo dono sia dovuto alla nostra vicinanza di pensieri e situazioni, alla condivisione di esperienze di vita difficile, che, sia pure in campi diversi, io nella sanità, lui nel sociale e nel quotidiano parrocchiale, ci accomuna. Entrambi abbiamo infatti contatti ravvicinati con l’umanità derelitta, io malata nel corpo, lui nell’anima. E spesso una delle due cose non esclude l’altra.

Conosco da poco il Fabry, e nemmeno di persona.
È stato lui a cercarmi, un giorno, a dire seguimi.
Dove?, gli ho chiesto.
Dentro LA POESIA E LO SPIRITO (LPELS).
E perché proprio io?
Perché sei come sei, è stata, più o meno, la risposta.
Come un Gesù pescatore di uomini, il Fabry ama pescare chi più gli sembra propenso a condividere il suo progetto di cambiare il mondo con l’amore, la bellezza e la poesia.
Ero incredula. Cosa mai potevo fare io in una cerchia di persone dal così alto valore intellettuale e culturale?
Me lo sto ancora chiedendo. Ma il Fabry non se lo chiede, a lui davvero vado bene come sono.

Don Fabrizio è un uomo colto, amante della letteratura, della poesia e della musica. Uno che scrive, anche. Ma don Fabrizio è anche un prete di strada. Uno che da quando ha indossato la tonaca la usa e la consuma nella discesa infinita dentro i tanti gironi di quell’inferno chiamato vita.
Uno che si rimbocca le maniche, che si mette al servizio degli altri, tanto più quando sono deboli, maltrattati e discriminati.
Un prete che fa il prete, che non si limita a indicare la via, ma la percorre per primo.
Un prete che scrive e veste di sole un piccolo libretto di speranza.

Questo libricino che ha per vestito un enorme sole giallo, s’intitola GUIDA PRATICA ALL’ETERNITA’, Racconti tra cielo e terra.
Tecnicamente è, appunto, una raccolta di racconti. Ma come per incanto ogni racconto è anche un ritratto, una confessione o una riflessione. Un’occasione per sguazzarci dentro, come ho fatto io, affascinata da sempre dai racconti di vita vissuta, specie quando questa è dura e fa male.
Non so se sono masochista… è che sono convinta che solo confrontandosi con il dolore altrui si sminuisce il proprio. È guardandoci intorno che possiamo dire, ma sì, in fondo, c’è chi sta peggio, e allora possiamo provarne compassione, dimenticando il nostro stesso egoismo.
E al tempo stesso possiamo consolare i nostri timori: nessuno è mai veramente solo, qualcuno è sempre al fianco di qualcun altro. Nemmeno i più disgraziati, i più derelitti, i più abbandonati, sono soli. Qualcuno che lotta anche per loro c’è, senza paura di esporsi in prima persona, e ci sembra impossibile che questo avvenga nel cinico mondo che ci ospita.
Testimonianze come queste non possono, in ultima, che incoraggiarci a fare qualcosa anche noi, nel nostro piccolo, per rendere migliore il nostro tempo.
Piccoli eroi quotidiani, anonimi, ma indispensabili.

Nel libricino vestito di sole il Fabry ha messo molto di sé e delle persone che ha conosciuto grazie al suo mestiere di prete di strada. Persone specialissime. Disadattati, alcolizzati, tossicodipendenti. I rifiuti della società, abbandonati lungo i margini, come la monnezza di Napoli. Sono loro quelli che più hanno bisogno di un aiuto o di un amico, e anche se non te lo diranno mai, anche se ti rendono la vita difficile, accettano in qualche modo di essere aiutati.

Nelle parole racchiuse nel libricino dal vestito giallo di speranza, si legge pietà per queste persone, comprensione, solidarietà, talvolta rabbia, ma sempre il desiderio di aiutarle e mai una critica alle loro scelte. Seguendo così un filo conduttore, un esempio a cui il Fabry ha attinto a piene mani. L’esempio di un altro prete, pure lui di strada, un prete sui generis dalle poche parole, molte sigarette e moltissimi fatti. È stato lui a indirizzare l’anima sbandata di un giovane all’epoca alle prese con un dolore immenso e inconfessabile. È stato lui a insegnare a quel giovane a tendere le mani per dare e non per chiedere, e a mettere a disposizione la propria vita per quella degli altri. E non solo in senso figurato.
Don Mario Torregrossa infatti è stato realmente vittima di un folle che gli ha appiccato fuoco, lasciandolo a combattere a lungo tra la vita e la morte, fino a rimanere invalido per sempre.


La figura di quest’uomo straordinario, ancora prima che sacerdote, ricorre spesso nella narrazione di Fabry. Umanamente, come un ritornello senza fine e senza un perché.

E come un ricordo doloroso e ricorrente racconta, quasi a cercare ancora di farsene una ragione, di come fu lui a soccorrere don Mario dopo l’attentato. E poi la lunga pazza corsa verso l’ospedale, con il bisogno segreto di bestemmiare senza poterlo fare (“Trasportando don Mario in ospedale lo vedevo tremare, e pensavo che una bestemmia in questi casi non può essere peccato. Avevo torto, ma il vuoto mi spingeva sui versanti sconosciuti di un dolore feroce, insostenibile, con lo stesso colore del sangue e dei semafori che intimavano l’alt e che io non potevo rispettare, come tutto il resto, se non il suo corpo martoriato, che tremava.” La bestemmia soffocata). E ancora l’angosciosa attesa e le preghiere e il disperato bisogno di credere alle previsioni di un veggente o presunto tale che assicura “si salverà”.

Nelle parole di questo libricino, esile ma pieno di fiducia, ci sono i protagonisti, estratti da un’umanità dolente e terribilmente autentica.
C’è l’attore che diventa alcolizzato dopo che gli muore la bellissima compagna russa, (“….capace di trasformare in sogno le ore della sera, al punto che non capiva come prima si potesse accontentare di quella cosa che chiamava vita. Facevano presto a ritrovasi avvinghiati l’uno all’altra, come se Mario avesse paura che il sogno gli sfuggisse, che un genio cattivo, geloso della sua gioia, gli strappasse dalle braccia il più bel film della sua vita. E così fu.Come un film.). Bugiardo e infingardo, apatico e indisponente, sempre sbronzo, prende il letto che il parroco gli offre, in canonica, e non lo lascia fino alla morte.
C’è l’arrivista che brucia la propria vita in un attimo, come un vulcano (“Nella vita avrebbe fatto qualcosa di grande, come l’Etna, che torreggiava sulle strade del suo paesone”. Vulcani).
C’è il tossico che le escogita proprio tutte per sfruttare gli altri, soprattutto i preti, senza rinunciare alla roba (“Sui preti ci puoi sempre contare, non c’è nessuno che si faccia infinocchiare come loro.” Canonica Paradiso) e rubare un posto in canonica, e magari in paradiso.
C’è la prostituta che domanda aiuto con umiltà e disperazione, per il figlio tossico che nessuno vuole curare, e il suo bisogno di aiuto è uguale al bisogno di tutti (“Anna ci chiedeva di aiutare il figlio, e ricordavo l’aiuto che avrei voluto anch’io quando tutto era crollato. Ci sono giorni in cui il tempo è sospeso sul desiderio d’impuntarsi, di dire no alla macchina infernale che ti stritola; […] e perfino la notte ti compatisce con gli occhi spalancati delle stelleCome stai?)
E c’è anche la suora terribile pronta allo scontro, ma che poi si ammala di tumore e diventa dolcissima e paziente, tanto da far capire, con la sua storia, che “…le rabbie e i sogni di noi umani sono un pugno di polvere lanciato verso il cielo, in attesa dell’inevitabile caduta.” (Polvere)
E altri ancora.

Ma nelle parole graffianti di questo libricino dalla veste galla c’è anche il calvario di don Mario e la crescita interiore di un ragazzo dalla vita vuota e difficile (Mani e Pugili allo specchio). E forse proprio queste sono le storie che personalmente mi hanno catturata più di ogni altra. Mi succede sempre, quando le adatto alla persona che le ha scritte e che conosco, perchè entro, in questo modo, nel suo intimo più inviolato. E mi sforzo di farlo inpuntadipiedi, con rispetto…

Nelle pagine di questo piccolo libro c’è la voglia di bestemmiare, ma anche il ringraziamento a Dio, c’è la passione per l’uomo come essere divino e miserabile, ma anche quella per l’omelia e il mistero della Messa.
In queste pagine, insomma, ci sono dei racconti, che non sono solo racconti da leggere, ma vita da bere.
La scrittura secca e allo stesso tempo poetica del Fabry, rende facile la lettura. Facile la riflessione, facile l’immedesimazione, facile l’emozione e il desiderio di conoscere da vicino una persona speciale come il Fabry, prete di strada, scrittore dell’anima.

domenica 1 giugno 2008

Francesco Marotta

Fabrizio, tu dici: “grazie per il bellissimo dono”. Ma il vero dono è già annunciato dalle parole di Giorgio, e si rivela, nella sua umanissima e compiuta bellezza, nelle pagine che racchiudono, come uno scrigno senza chiave, i racconti di fraterna, dolente umanità che compongono il libro.
La sostanza etica da cui scaturisce ogni parola di Giorgio, infatti, non è altro che la risposta, l’unica possibile, a chi ti avvicina reggendo in mano un dire impastato nella stessa materia, animato dallo stesso respiro, dalla necessità, che si fa spasimo e dolore fisico e paura e speranza, di provare ogni giorno, in ogni momento, le proprie certezze, piccole o grandi che siano, al fuoco dell’esistenza concreta e non della sua immagine idealizzata: senza mai dimenticare che il fuoco che riscalda e genera è lo stesso che consuma, che brucia e incenerisce: l’alito materno che dà vita o la ripugnante fiamma della storia che si accanisce contro un corpo già provato da ogni rinuncia.

Il tuo libro è di una “humilitas” sconcertante, “scandalosa”, che attanaglia: come una “pietra” lanciata con forza, anche quando assume vesti e forme di piuma, contro la finzione, il perbenismo, le convenzioni, le maschere quotidiane, il falso ossequio e gli ancora più falsi rituali di una carità e di una pietà ridotte al rango di stanche abitudini: capace di mettere da parte dogmi e dottrina e di fotografare, in alcuni racconti in modo indelebile, lo spazio esatto di volti che si cercano, che si scambiano respiro e pelle pur senza mai sfiorarsi, che si rincorrono per condividere l’attimo in cui la vita gli si è rivelata, o gli si rivela, nella sua estrema, assoluta nudità: come se questo fosse l’ultimo, o l’unico, scopo da realizzare nei propri giorni. E la vita che ne emerge è il cammino esatto di chi continua a cercare, anche quando il terreno sembra dileguare o scompare del tutto sotto i piedi; anche quando l’unica certezza che si ritrova non è altro che il nulla di orizzonte di chi annaspa nel vuoto: ma, nonostante ciò, ha ancora la forza per rimirarsi nello specchio della sua memoria, quella dei propri passi, quella di un’eco superstite: l’immagine precisa, netta, incancellabile, di chi parte alla ricerca di un uomo di cui conosce appena il nome, e in un paese straniero continua a sussurrarlo alla gente incredula, stupita, intimorita.

E’ un libro della “condivisione”, la condizione ormai rimossa, perché inservibile e inutilizzabile dalle logiche del dominio e dell’egoismo, di chi scopre l’universo al suo primo apparire nei disegni di un bambino, e sa, in cuor suo, che non gli resta altro che contemplare, davanti a quel fluire di segni incerti, tutte le sue teorie, la sintassi, le proporzioni, le regole, il dettato, l’ordine, l’agire, mentre si riducono in fumo e svaniscono come nebbia cancellata dalla luce irriducibile di quei tratti sghembi, elementari. Ed è esattamente quello che avviene in questo piccolo, grande libro dove l’unico miracolo possibile, a misura umana, è proprio l’umana misura, quel “condividere” che ha l’ardire di cancellare l’accumulo, il “moltiplicare” su cui si fonda la sua stessa storia: un intero oceano ridotto a un minuscolo graffio di colore blu su un foglio. E’ così: la mano che ricostruisce l’alfabeto delle vite narrate ha dita infantili: lo scrittore, l’intellettuale, l’uomo colto gli mette a disposizione lo strumento di una struttura armoniosa, essenziale, luminosa nella disposizione e nei procedimenti che ne incanalano il flusso: ma lo sguardo, la percezione e la trasposizione dell’esistente in “quei” colori sono attimi di una pupilla vergine che cresce, e ingigantisce, insieme alle “cose”, che si immerge nella corrente del mondo, ne diventa parte, non giudica, ne legge i segni, la sofferenza: scoprendovi per la prima e l’ultima volta la radice profonda del proprio volto.

Molti anni fa ebbi la fortuna di conoscere padre Turoldo. Mi fu presentato da un compagno di lavoro che era stato un suo allievo. L’avrò visto in una decina di occasioni, e ogni volta erano lunghe chiacchierate, discussioni accese e febbrili su libri, sulle vicende di quei giorni straziati, memorie e racconti degli anni di guerra che non avevo mai vissuto. Ricordo che una volta stetti ad ascoltarlo per molti minuti senza dire una parola. Lui mi guardò con occhi ancora più profondi e mi disse: “Io so cosa vorresti chiedermi: perché ti parlo tanto, di tutto, tranne degli abiti che indosso; tu aspetti solo di sentirmi dire chi è nel giusto, anzi, che io sono nel giusto. Tu aspetti dalle mie parole la conferma a una tua verità, da contrapporre alla mia”. Non risposi. “Ricordati che non è quello l’essenziale. La strada è una, e la si percorre in mille modi diversi, con passi più o meno franti o sicuri. Tu pensa solo a percorrere la tua, quale che sia, e a rimanere te stesso nel cammino. E a chi ti dice che non lasci impronte, regala un pugno di sabbia: il ricordo del deserto che hai attraversato.”

Non l’ho mai dimenticato.

Ecco, ho voluto condividere con te questo ricordo: per ringraziarti del libro, in cui parli della mia gente, del mondo ai margini del mondo in cui sono nato e dal quale non sono mai uscito; perché mi piace pensarti, con abiti e passi diversi dai miei, mentre ogni giorno attraversi quel deserto: perché io saprei riconoscere, in ogni momento, la voce della sabbia che porti stretta alle dita.