sabato 31 maggio 2008

Stefanie Golisch

Funamboli

I racconti di Fabrizio Centofanti


Non sono salvi.

Ma trovano nei racconti di Fabrizio Centofanti una dimora. Fragile e precaria com’è nella natura della letteratura che è fatta di parole e di suoni, di allusioni e intuiti.

Li chiama con il loro nome - Antonio, Agatino, Mario, Anna - questi uomini e donne al margine della società. Coloro che non ce l’hanno fatta in un mondo spietato che perdona piuttosto il crimine che l’insuccesso.

Guardare dove la maggior parte distoglie lo sguardo per ridare la dignità a chi l’ha persa, sembra essere il programma di questi racconti che portano il lettore direttamente nel cuore di una realtà che, a prima vista, di letterario ha ben poco.

Non sono personaggi attraenti che al mondo hanno qualcosa da raccontare o insegnare, al contrario: il loro messaggio è la difficoltà di vivere, il fallimento di piani e progetti, sogni e attese. Sono uomini e donne deboli, ma uomini e donne in cui ci si può comunque riconoscere.

E questo è proprio il merito della scrittura precisa e attenta di Fabrizio Centofanti.

Sarebbe stato facilissimo, proprio davanti a un tale proposito, sbagliare tono. Diventare dolciastro o lacrimoso. Compatire questi poveracci dall’alto al basso, dalla posizione di chi è, al contrario loro, salvo e sapiente.

Ma la scrittura di Centofanti ci fa capire l’esatto contrario: non possiamo non riconoscerci nella loro delusione e nei loro fallimenti. La possibilità tragicamente mancata - o spensieratamente giocata - non è il contrario della possibilità realizzata, ma nel quadro completo della vita umana sono un’unità indissolubile.

L’uno non è pensabile senza l’altro. Il nostro equilibrio personale, che è l’equilibrio del mondo intero, è fragile - e sulla fune non si gioca soltanto il destino del funambolo.

Il racconto Come un film parla proprio di questo scambio di ruoli e di destini. L’attore Mario, un uomo che dopo una grande delusione amorosa perde la sua stabilità psichica, abbandonandosi all’alcol, porta lo stesso nome del parroco don Mario che lo accoglie in casa sua, cercando invano di trovare una soluzione per i problemi dell’altro.

L’alcolizzato nel letto che il prete gli ha ceduto o al telefono, fingendosi il suo benefattore: i due Mario non sono la stessa persona, ma certamente portano l’altro in sé; come una delle infinite possibilità di cui l’uomo è il contenitore.

Fallimento e successo non come due poli estremi, assoluti, ma come l’abissale danza del funambolo che in ogni momento è nel pericolo di perdere il suo equilibrio.

Come se fosse necessario, nella logica del mondo, c’è chi cade e c’è chi si salva. Ovviamente non è la stessa cosa, ma il vincitore e il vinto sarebbero impensabili senza la loro battaglia continua.

Non si può sfuggire dallo sguardo dell’altro: così come il suo trionfo, anche la sua miseria è, intimamente, la tua.

martedì 27 maggio 2008

Giorgio Morale

Caro Fabrizio,
ho appena finito di leggere il tuo Guida pratica all’eternità. Non vorrei al momento analizzare l’opera dal punto di vista estetico-stilistico: esso fa parte dell’educazione e della sensibilità del Narratore che nel libro dice “io”; ma sintetizzo quello che potrei dirne con le parole di Giovanni Nuscis: “L’esattezza, la leggerezza e la rapidità calviniane nel descrivere sono qualità evidenti di questa scrittura”.
Hai scritto un libro di racconti brevi, ma con una struttura salda e ben costruita. In apertura hai posto un preambolo, il racconto L’editore, una sorta di protasi in cui dichiari la tua fiducia nei racconti “leggeri e discreti”, che “passano quasi inosservati, ma gettano semi di storie che qualcuno raccoglie e fa fruttare altrove”. Cominci quindi con Scacchiere, in cui presenti il te stesso di anni fa a un bivio, alle prese con la scelta tra l’accademia letteraria e la vocazione religiosa.
Poi prosegui con racconti disposti secondo una progressione romanzesca, che io assimilerei alla tipologia del viaggio iniziatico. Poco importa se a muoversi non è il protagonista, ma le varie figure che vanno a lui: l’io viaggia trasferendosi in loro. È l’io di Fabrizio Centofanti attore e narratore che fa da filo d’unione, ritraendosi dietro le quinte nei vari incontri, per venire in primo piano alla fine.
Naturalmente per noi occidentali il viaggio iniziatico per eccellenza è la Commedia dantesca, il cui modello mi pare di vedere in filigrana anche in questo libro. Infatti cominci l’opera con incontri da Inferno contemporaneo: disoccupati, ladri, barboni, prostitute, drogati, ubriaconi, con don Mario come un novello Virgilio a farti da guida. Poi c’è il Purgatorio di figure troppo prodighe, supponenti, inflessibili, dogmatiche. E infine il tuo Paradiso: la tua fede, la messa, la celebrazione eucaristica. Proprio queste ultime sono tra le pagine più coinvolte e coinvolgenti, in cui tu pellegrino lasci anche la guida di don Mario per affrontare da solo il tuo compito, e diventare uno dei personaggi, accomunato agli altri dalle tue povertà, i tuoi dubbi, le tue paure.
Come spesso avviene alla fine di una recherche, la rivelazione cercata è la più semplice che si possa immaginare: al fondo di tutto si trova se stessi, la propria immagine, la propria vocazione: “la vocazione, è nata da una luce improvvisa, mentre prima sembrava tutto grigio” (nel racconto Il canto del gallo). Così si chiude il cerchio aperto con Scacchiere.
Insomma, non voglio fare un’analisi del libro, Fabrizio, quello che mi preme dirti, a libro appena concluso, è che hai sortito l’effetto che alcune opere sortiscono: fare desiderare la condizione del personaggio-Narratore: sì, in alcuni momenti ho desiderato essere te, per poter avere un’esperienza grande come la tua delle sofferenze umane.
L’attenzione per i poveri e la sofferenza presente nei tuoi racconti mi fa venire in mente alcune parole di Flannery O’Connor: “Se vuoi scrivere racconti, non scacciare i poveri dalla soglia di casa… i poveri hanno meno bambagia a proteggerli dalla brutalità della vita… il romanziere li avrà sempre con sé, perché riesce a trovarli ovunque… agli occhi del romanziere siamo tutti poveri, e il povero soltanto simbolo della condizione di tutti gli uomini… Il mistero dell’esistenza traspare sempre dal tessuto delle loro vite ordinarie” (da Nel territorio del diavolo).
Tu protesti perché “Vogliono un prete senza errori. Una macchina infallibile”. E racconti di una signora che viene in sacrestia a dirti: “Don Fabrizio, devo dirle una cosa, anche se so”. Che cosa? “So che è comunista”. Forse perché dici sempre che “sui pani hanno sbagliato operazione: condividere, non moltiplicare”. Perché dici che “La forma perfetta è la faccia dei poveri. Ossimoro vivente: la mancanza di tutto e la pienezza” (nel racconto La forma perfetta).
Ma non vedo che errore ci sia in questo. Tutto questo è strettamente legato alla tua fede, credo infatti sia vero quanto dice ancora Flannery O’Connor: “Più intensa è la luce della fede, più evidenti saranno le storture che lo scrittore vede nella vita attorno a sé”. E inoltre: è necessario, queste storture, “farle apparire come storture a un pubblico abituato a considerarle naturali”.
E questa è anche la mia esigenza. Pertanto ti ringrazio di questo libro e ti abbraccio.
Giorgio

lunedì 26 maggio 2008

Mario Galzigna

Da Ibridamenti

Maddalena mi dice: *Sto scrivendo un commento al libro di don fabri* (così lo chiamiamo tra di noi)...
Scuoto il capo. Ci risiamo, dico. Un nuovo *agìto*, una nuova iniziativa, tra le tante collegate a questo nostro maledettissimo [:-)] blog (Ibridamenti), che rende il mio *accesso* a madmapelli sempre più arduo, sempre più difficoltoso...
Mad esce con la bambina: il suo vero ancoraggio al mondo dei viventi...
Lascia il libro di don fabri sul letto, con dei postit verdi che sbucano fuori dalle pagine, quasi a promettere ricche esegesi, commenti, annotazioni...

Incuriosito da tanta *dedizione*, un po' insospettito dal titolo, evocatore di fantasmi religiosi a me estranei, apro il piccolo libro. Leggo prima i passi sottolineati da mad, o commentati nei postit verdi. Ma sùbito abbandono questa postura troppo familiarista e comincio a leggere. Vengo, debbo dirlo, immediatamente travolto dalla lettura (alla quale, non ultima, mi sprona la prefazione dello stimatissimo Remo Bassini)...

Microstorie, riprendo Bassini, sospese tra la disperazione e la speranza. Microstorie attivate non dalla fantasia, ma dal ricordo, da una memoria partecipe e dolente.
Microstorie che mettono al centro della scena derelitti, emarginati: gli ultimi.
Microstorie che riportano frammenti di realtà: frammenti ricordati, rivissuti, con grande e commovente empatia. Non c'è la fantasia, certo, ma c'è un alone lirico - poetico, empatico, ricco di partecipazione umana e affettiva - che dà colore e spessore a queste microstorie.
I paria, i "suppliziati del linguaggio" (Antonin Artaud), solitamente esclusi dal registro della parola, trovano qui un luogo in cui, direttamente o indirettamente, si riprendono la parola che è stata loro negata...

Andrebbe aperto, anche qui - perchè no? - un bel dibattito sulla visione laica di concetti come spiritualità, trascendenza, empatia.
Trascendenza: movimento che mi porta fuori da me, verso l'altro.
A don fabri dico che discutendo su queste cose troveremmo - ne sono certo - non solo differenze, ma anche punti di incontro e territori di possibile condivisione...

Grazie per questo tuo lavoro, don fabri.
Mario Galzigna

Un libro da ascoltare, di Maddalena Mapelli

(Da Ibridamenti)

Mi ha fatto bene leggere i racconti di Fabry.
E vi dico tutto per filo e per segno.
Che ho saputo per caso che ha scritto un libro. Via mail, gli parlavo del mio, e lui dice, dammi l'indirizzo che te lo mando.
Che appena arrivato a casa, l'ho aperto e lo rigiravo per le mani perché Guida Pratica all'eternità non è un titolo facile da digerire.
Che l'ho messo in borsa, magari prima o poi ci butto un'occhiata.
Che mentre ieri sera Mario mi raccontava del convegno di Roma, e stavamo a bere l'aperitivo in centro, me lo ritrovo aperto tra le mani e ha un sottotitolo che te lo raccomando Racconti tra cielo e terra.
Che poi quando lo cominci, ti accompagna.

Ecco io però ho preferito leggerlo tra la gente. Ieri prima di cena, oggi mentre Sara faceva la gara di pattini. Perché sarebbe stato troppo libro e poco guida se lo avessi ascoltato nel silenzio più totale.
Perché di silenzio ce n'è già tanto nella scrittura di Fabry. E' una scrittura che spesso sfrutta la ridondanza e ti riporta all'inizio. Perché pensare è soffermarsi all'interno di un cerchio.

E' una scrittura che ti trattiene nelle immagini. Ora, quelle dei suoi racconti, mi affollano ancora la mente. E come hanno fatto da riflessi all'io narrante che nei vissuti narrati - impietosi, marginali, tragici, sublimi, esemplari - riconosce e costruisce, volta per volta, parti di sé, così ora mi rispecchio, attraverso quelle immagini, in quei simulacri che ci abitano. E' un gioco di specchi che continua: nella sofferenza delle storie narrate, si snoda il racconto e si costruisce uno sguardo, quello dell'autore del libro, che racconta di sé, narrando degli altri. Allo stesso modo il lettore può continuare il gioco, può rincorrere e rimemorare i propri simulacri, le proprie immagini mnestiche, riflettendosi in ciò che il testo gli suggerisce.

Io non ho intravvisto l'eternità - perché la mia cultura è differente - ma ho sentito il pneuma, lo spiritus, che ogni cosa lega. E attraverso i racconti di Fabry ho rivissuto quei momenti di felicità leggera che accompagnano le sere di maggio della mia infanzia. Davanti al sagrato della chiesa, a correre e a giocare. Una felicità di cui sono capaci i bambini. E che può sentire chi schiude la propria anima oltre ciò che è visibile. Perciò sì, ascoltando questi racconti ho sfiorato un mondo e, senza arrivare al cielo, ho provato quantomeno a sollevarmi da terra e a leggere nelle storie altrui i riflessi delle mie. Un esercizio di sospensione tra terra e cielo che fa bene. Fa bene davvero.

grazie Fabry

domenica 25 maggio 2008

Recensione di Giovanni Nuscis

(da Transito senza catene)
Vulcani

Turi era un ragazzo esile, ma con un sacco di idee. Nella vita avrebbe fatto qualcosa di grande, come l’Etna, che torreggiava sulle strade del suo paesone. La montagna lo ispirava: si sentiva nelle viscere la stessa potenza, che poteva fare di lui un uomo fortunato, uno di quei ricchi con il Rolex d’oro che aveva visto nelle pagine dei giornali per femmine letti e riletti dalla madre e la sorella.
Passava le giornate a pensare al futuro: gli stavano stretti i banchi della scuola e anche i giochi con quei babbazzi dei suoi coetanei. Lui guardava i grandi, non quelli del paese: quelli visti in tivù, che entravano in banca, o avevano una segretaria, o dettavano legge nei cantieri.
Man mano che cresceva, lavorando tanto e lavorando bene, si accorse di avere un dono naturale: quello di rimettere in piedi le imprese agonizzanti: le portava in alto in poco tempo, dopo di che mollava tutto e ripartiva con un nuovo moribondo.
La sua vita era una corsa, aveva un amore sviscerato per le auto di lusso. Si sentiva inebriato quando accarezzava il volante di una Ferrari o di una Jaguar, ma non per esibizionismo da strapazzo; lui non era come i compaesani arricchiti che strombazzavano il clacson esibendo benessere e dentiere. Doveva solo dimostrare a se stesso che il ragazzo con un sacco di idee aveva davvero la potenza del vulcano. Entrò nel mondo del cinema. Tutto quello che toccava diventava oro.
Più lo conoscevo, Turi, più la sua esistenza mi sembrava l’opposto della mia. Anche la mia vita bruciava ogni energia con la potenza del vulcano, ma in un moto verso il basso, verso il fondo, alle radici. I miei sogni erano altri, facevano un percorso inverso, invisibile al mondo; non sapevo che avrei fatto la scelta di entrare in seminario, ma il mio desiderio aveva la stessa intensità di Turi, eravamo due vulcani contrapposti, lui con i lapilli lanciati verso il cielo, io con la lava che scendeva a valle con una marcia altrettanto irresistibile.
Turi era diabetico, ma cucinava da dio. La sua pasta alla Norma, con le melanzane siciliane, non aveva uguali. Alla faccia del diabete, non disdegnava nemmeno la granita e la brioche delle dieci del mattino. Ma era il pesce spada il suo capolavoro: nessuno ne conosceva il segreto, e il piatto gli usciva dalle mani come per miracolo.
A Taormina veniva incontro a me e don Mario in costume da bagno e ciabattine, col suo passo pesante e ondulatorio, la pancetta e gli occhiali da sole: sembrava un cineasta americano di quelli che mettono in mostra sui giornali, con il Rolex d’oro al polso.
Turi diceva che i preti erano egoisti, mentre lui rischiava tutto mettendo in gioco quello che aveva accumulato. “E perché, noi?” volevo dirgli. Ma a Turi, su questo punto, era inutile rispondere, stava già parlando d’altro.
A Roma si era fatto costruire una casa da uno degli architetti italiani più famosi: era in collina, e voleva forse riprodurre un sogno di potenza lavica e lapillica, un simbolo di vita che si espande, e non, diceva lui, come la vita dei preti che si conserva e preserva – e io volevo dirgli: “La nostra?”, perché già m’identificavo con don Mario – ma lui parlava d’altro.
Ne aveva fatta di strada, Turi. Ora correva sulla Taormina-Messina con la sua Jaguar fiammante che divorava i chilometri come Scilla e Cariddi i marinai. Curva dopo curva inseguiva il suo sogno di ragazzo esile con un sacco di idee, anche adesso che pesava cento chili e con gli occhiali da sole sembrava un cineasta americano.
Fu del tutto imprevisto il meccanismo inceppato del volante, l’imprecazione gli uscì naturalmente, come un sussulto del vulcano, e l’ultima immagine, prima dello schianto, fu quella della sua montagna. Rimase riverso sul volante, come un eroe morto in battaglia.
L’ambulanza arrivò dopo mezz’ora; nessuno ritrovò il suo Rolex d’oro, l’ultimo dono di una vita da grandi, vissuta sull’orlo del cratere.

Fabrizio Centofanti

Guida pratica all’eternità.

Racconti fra cielo e terra.

Effatà editrice, 2008
Prefazione di Remo Bassini
Postfazione di Riccardo Ferrazzi

***

“I libri che preferisco – dice l’editore, protagonista del primo testo della Guida - sono quelli di racconti: leggeri e discreti, passano quasi inosservati ma gettano semi di storie che qualcuno, passando, raccoglie e fa fruttare altrove, in una catena interminabile”. Fabrizio Centofanti, laureato in lettere moderne e sacerdote diocesano, è, per l’appunto, un “seminatore” o, meglio, un seminatore col sole che tramonta, secondo il titolo del quadro di Van Gogh scelto per la copertina del libro. A questa considerazione si perviene dopo aver letto i suoi diciannove racconti e, in particolare, Ventuno dicembre 2012, nel quale si può leggere, in filigrana, un drammatico tramonto di civiltà. Fabrizio Centofanti è un uomo che veglia: sul mondo letterario - di cui fa parte con le sue pubblicazioni di poesia, narrativa e saggistica e con la gestione di uno dei blog collettivi più attivi e visitati in Italia – e sulla comunità parrocchiale affidata alle sue cure. E non solo, crediamo. Ci siamo conosciuti in rete in occasione di un suo commento nel mio blog; l'intervento precedente era di un anonimo firmatosi 666; credo poco alla casualità degli incontri e degli eventi, penso che la capacità di ascolto e percezione sia un grande dono, chiaramente ravvisabile nelle pagine del libro: “Quando mi chiedono di leggere il futuro, mi trovo in imbarazzo. Non mi piace sentirmi un fenomeno perché so che non ho meriti […]” (Dialoghi fra la terra e il cielo); “la sacrestia è la pedana di lancio, con le sue pareti spoglie, le ragnatele che pendono dall’alto. Lì sei ancora uomo, con le incertezze e le paure. Dopo, quando superi l’archetto, non sei più tu a guidare il gioco.” (Levate la pietra); “Il 21 dicembre del 2012 ci sarà un cataclisma di proporzioni gigantesche che spazzerà via una parte dell’umanità: ne ho la certezza, non chiedetemi di svelarvi la serie di coincidenze che mi ha portato a sapere” (Ventuno dicembre 2012).
Un intervento critico non dovrebbe soffermarsi più di tanto sulla biografia di chi scrive, per parlare invece dell’opera, dei suoi contenuti e della forma; sento però che questo lavoro lo esige, poiché a raccontare non è solo un artista; e perché il libro non è soltanto un’opera letteraria, e il titolo, Guida pratica all’eternità, parrebbe confermarlo.
Dopo la lettura dei primi racconti ci sovvengono alcune voci note: “descrivi il tuo villaggio e sarai universale” (Tolstoi), “parla solo di ciò che conosci” (S. King), “descrivi e non fare il furbo” (Puskin). Ebbene, l’autore, queste voci – e non solo queste - sembra averle ascoltate tutte. Il villaggio è la parrocchia. Le persone che ci vivono o ci gravitano sono i protagonisti di queste storie spesso disperate. L’esattezza, la leggerezza e la rapidità calviniane nel descrivere sono qualità evidenti di questa scrittura.
Le storie sono percorse da pensieri, sentimenti ed esperienze di vita vissuta. La parrocchia è il luogo dove molte di esse si svolgono: nel rito di una messa (Levate la pietra) o nel porto/crocevia della canonica, approdo di ladri, vandali, incendiari, barboni, suore, tossicodipendenti, prostitute: umanità assai cara ai due Fabrizi (al Nostro e al De Andrè).
Nei racconti è spesso presente un personaggio che subito intuiamo significativo per l’autore, don Mario Torregrossa (“fondatore del Centro di formazione giovanile Madonna di Loreto-Casa della Pace, in Roma”); egli compare nelle storie come compagno di viaggio – pure lui in prima linea – e come interlocutore, e testimone; ma anche, drammaticamente, come protagonista di un atto di violenza per lui quasi fatale, quando gli dettero fuoco e stette per mesi in rianimazione, come si racconta ne La bestemmia soffocata. Un altro bel racconto, in forma epistolare, è dedicato a Sante Bernardi la cui vicenda umana, per i riflessi nel sistema sanitario, ha visto coinvolte le massime istituzioni nazionali (Lettera di Natale – a un amico malato di SLA).
Storie, sempre, comunque, emblematiche quelle che Fabrizio Centofanti ci racconta; talvolta assai toccanti, e capaci di lasciare un segno forte. Storie scritte con sapiente semplicità, affidandosi “alla maestra dei poveri, la vita, con le sue aule scalcinate, le lezioni elementari ma piene di una incontrovertibile saggezza.”

Giovanni Nuscis

lunedì 12 maggio 2008

L'uomo tutto intero, di Elena F. Ricciardi

“Il Mistero non è mistero provvisoriamente. L’Altro è Altro per sempre. Se cessasse di esserlo, come amarlo in assoluto?”
“Dio è un eccesso di amore ma non si guarda amare”.
(Francois Varillon, L’umiltà di Dio)

Chi ha visto me ha visto il Padre” (Gv 14,9)

Che Fabrizio Centofanti scriva bene non lo dico io, lo dicono le pagine di questo libro di racconti, distese e intricate come la migliore partitura contrappuntistica baciata dal miracolo, dal fuoco della visione/ispirazione che non è mai altro dalla vita in sé così come sgorga dal tempo e dalla storia pur provenendo da chissà quali mondi dell’altrove. Lo stile è piano, limpido, preciso fino al millimetrico dettaglio di una virgola su cui posare per un momento il fiato e riprendere, affondandovi gli occhi fino nei recessi più profondi del cuore, la lettura.
Non avventuratevi fra queste pagine se non siete pronti ad affrontare il fuoco di una passione dirompente e confessata: “Anche la mia vita bruciava ogni energia con la potenza del vulcano, ma in un moto verso il basso, verso il fondo, alle radici“; eppure trattenuta, come una vela opposta al vento che la gonfia allo spasmo, sempre sull’orlo dello strappo. Non avventuratevi in questa molteplice storia se la vostra immagine della fede corrisponde ai santini che si vendono fuori dei santuari. Nel caso, però, voleste conoscere un altro mondo, un altro modo, un altro passo sulle orme dell’umano allora questo è il libro che forse attendevate da tempo.
L’autore ha metabolizzato bene la lezione del suo dichiarato maestro, Italo Calvino: leggerezza, rapidità, esattezza, visibilità, molteplicità: “La mia fiducia nel futuro della letteratura consiste nel sapere che ci sono cose che solo la letteratura può dare con i suoi mezzi specifici” (da Lezioni Americane). Valori e qualità che avrebbe voluto traghettare nel nuovo millennio, le ritroviamo, in uno stile tutto personale, in queste brevi e intense pagine. Anche Fabrizio crede che ci siano cose che solo la letteratura può dare, del resto è un profondo conoscitore dei Vangeli, che sono in prima battuta una narrazione, una storia, il racconto di una vita intessuta di storie fra le più diverse ed è per questo forse che non pensa a Calvino mentre il ticchettio della tastiera accompagna il dipanarsi dei suoi racconti. Calvino è la trasparenza dello stile e la domanda ribattuta e insistita su quale sia il crinale giusto della vita e se la verità non stia per caso fra le pieghe, negli interstizi delle cose e delle storie, sull’orlo del confine, mai definito in modo netto, della luce e dell’ombra: “Chissà come sarebbe stata la mia vita se avessi proseguito nell’altra direzione, avrei conosciuto il rovescio di tutto quello che successe“, perché la realtà non è lo stesso della verità. La verità è una mentre il reale è molteplice come molteplice è l’interpretazione di sé e di coloro che ci vengono incontro, come un infinito gioco degli specchi in cui spesso “Tu sei me” perché davvero in questa storia terribile e bellissima nulla di umano è lasciato al margine. “Parlavamo dei desideri opposti che sentiva combattersi dentro come due pugili indomabili [...] Filippo mi guardava: le nostre storie s’incrociavano come i fari sfreccianti sulla strada, sarebbe bastato un niente per uno scontro frontale“, ma la trama di queste storie, di questa vita che, come l’altra, incontra molteplici storie, è intessuta di altri fili, di altre trame, di altri nodi stretti all’ordito di una risposta data e ricevuta, al telaio di un unico fatto certo, sebbene inspiegabile: la vocazione, la risposta a una domanda inaudita, alla proposta espressa da quel silenzio che abita il cuore di chi cerca: ” Don Mario non raccontava mai dei suoi eroismi, ero io il testimone di vicende al limite delle possibilità umane e se ora scrivo queste note è perché sia chiaro che l’uomo non è solo malavita e prostituzione d’ogni genere, ma anche lunghe notti di emorragie intestinali per portare i soldi necessari a un povero Cristo“. E allora gli uomini e le donne di questa storia unica fatta di storie che si incontrano per provvidenza o destino tutte in un punto sperduto della periferia romana, stanno tutti, ciascuno col suo carico di vita e di-sperata-speranza, dentro una domanda che diventa ascolto, la domanda che ciascuno si sente fare quando incontra il prete della storia : “Come stai?“.
Anche il lettore si sente interpellato: “Come stai?”
Si, perché non possiamo incontrare suor Luigia, Agatino, il barbone,Turi, Antonio, il drogato, la prostituta, l’ombra del piromane che bruciò don Mario e tutti i colori perseguitati dall’ombra, eppure sempre alla ricerca della luce di cui questo libro è fatto, senza sentirci parte con essi, senza sentire l’esigenza di dare una risposta, senza percepire nel profondo che quella pietra che così spesso ci grava sul cuore, piano piano si scioglie e quel freddo nel quale ci nascondiamo come embrioni congelati in attesa di vedere la luce, lascia la sua presa mortale e si trasforma in un ventre materno e caldo, in un abbraccio capace di accogliere l’uomo tutto intero anche quando non riusciamo a capire come si possa amare così:
“Quando don Mario mi chiese come stai?, mi accorsi non subito, diciamo lentamente, ma sempre di più, che le dieci Ceres erano un ricordo del passato, di fronte agli occhi aperti di don Mario, aperti in tutti i sensi, come quelli di Anna, come quelli di tutte le creature che abbattono l’ultimo steccato e passano avanti in quel regno dove si entra senza trucchi, anche se sei un drogato o una puttana, anche se la notte, con la sua faccia scura, ti guarda con uno strano senso di pietà”.

Elena F. Ricciardi

Postfazione di Riccardo Ferrazzi

Stanno per essere pubblicati diciannove racconti di Fabrizio Centofanti (Guida pratica all’eternità. Racconti fra cielo e terra). Per leggerli ho impiegato il tempo che di solito si dedica a un romanzo, perché non c’è modo di leggerli senza mettersi a pensare. Uno legge il singolo racconto e si accorge che al di sotto sta prendendo forma qualcos’altro. A dispetto della sua apparenza sparpagliata, il libro ha una architettura, un senso e la giusta dose di furberia autoriale.
Tanto per cominciare: l’aspetto formale. Un pignolo potrebbe sostenere che non di racconti si tratta, ma di bozzetti nei quali viene schizzata un’impressione, un rapido imprinting di persone che restano pur sempre impenetrabili, chiuse nella loro incomunicabilità. Qualcun altro potrebbe lamentare la quasi totale assenza di azione: qui non “succedono cose”, ci sono soltanto dei “gesti” che dovrebbero gettar luce su una personalità (e invece, più si cercano significati e più ci si addentra nell’ombra).
Ma sarebbero critiche senza senso: la verità è che ciascuno di questi brevi racconti avrebbe potuto prendere forma di poesia. Letti in questa prospettiva, come se fossero una raccolta di liriche, i diciannove racconti, anche se tracciano separate immagini di esseri umani piegati dalle durezze di una vita che non regala niente, sono tenuti insieme dallo stile, essenziale, che rimanda a un elemento unificante. Quale?
Avviciniamoci gradatamente alla sostanza: Fabrizio Centofanti è un sacerdote, ma, grazie a Dio, non ci riempie le orecchie con quella oratoria melliflua e democristiana che fa venir voglia di correre a prendere la tessera del PCUS. Lui parla di Antonio, Franca, Agatino e Luigia, e mentre li racconta non gliene frega niente di insegnare qualcosa, così come non cerca di dare interpretazioni: Antonio, Franca e compagnia sono esseri umani che suscitano curiosità, sensazioni, sentimenti. Non sono pecore che il pastore si riserva di capire per svelarle a loro stesse. Il pastore non pretende di intrufolarsi nel loro mistero. Non pretende neanche di essere pastore, neanche di essere amico. Cerca soltanto di essere utile.
Perché? Per crogiolarsi al calore di una gratitudine più o meno sollecitata? No, don Fabrizio sa che non c’è gratitudine a questo mondo. Chi dà ciò che ha è considerato fesso; chi dà ciò che non ha è considerato ladro. Tu fai del bene e gli altri se ne approfittano; tu non fai male a nessuno e loro ti danno fuoco.
E allora che senso ha questa voglia di essere utile agli ingrati? Forse possiamo farcene un’idea immaginando un cataclisma. Non la fine del mondo, non il Giudizio universale, ma il più modesto giudizio personale che noi stessi prima o poi dovremo pur dare. Don Fabrizio immagina di conoscere la data precisa in cui il cataclisma avverrà, e si immagina lì, in attesa di un’onda che lo spazzerà via. Non pensa a fiumi di pece bollente o a cori angelici: pensa a cosa farà nei pochi attimi in cui potrà ancora pensare.

“Di fronte allo scatenarsi dell’evento, emergono domande prevedibili: che ho fatto nella vita?… Vengono in mente situazioni in cui avrei potuto ascoltare, intervenire, occuparmi di qualcuno o di qualcosa. Ma la pigrizia, la fretta, l’ambizione, hanno messo impedimenti invalicabili, accumulato strati su strati di opere inevase, che adesso si rovesciano sulla mia impotenza improvvisamente evidente, insuperabile.”

C’è un’unica risposta, ed è la stessa scandalosa risposta che duemila anni fa portò un altro uomo a morire come un criminale: non si ama per essere amati, si ama e basta, perché l’amore si alimenta nel dare, non nel ricevere.

Prefazione di Remo Bassini


Pare di vederli, leggendo. Vanno a capo chino, hanno lo sguardo di chi è solo, disperato, affamato. Sono i personaggi-protagonisti di questi racconti. Sono donne e uomini piccoli ma ingombranti, da buttare nel cassonetto. Da rimuovere. Perché scomodi, a volte puzzano. Andate via, via.
Siete gli “ultimi”, accontentatevi del regno dei cieli.
Non c’è spazio per voi in questo tempo di usa e getta, di computer dell’ultima generazione e di generazioni cresciute tra computer, line e la tivù “dei belli” e dell’effimero.

Ha fatto un lavoro storico e narrativo, don Fabrizio Centofanti, con questi frammenti di disperazioni e speranza.
Il lavoro storico - ma che compete (o così dovrebbe) a ogni intellettuale - è stato quello di annotare fatti e persone, cercandone il cuore, magari nascosto da un cappotto ricuperato chissà dove. Sono storie, queste, più vere del vero, che fanno male anche.
Sono microstorie - che tanto piacerebbero alla scuola delle Annales di Le Goff - che Fabrizio Centofanti ha scritto con tempi e ritmi di una narrazione a volte secca e dura, a volte, invece, vicina al lirismo.
Non ha usato la fantasia, Fabrizio Centofanti, ché la fantasia in certi casi depista e distorce. Ha usato i suoi ricordi, i suoi appunti, perché la memoria, si sa, è capricciosa. Ed eccoli, ora, questi racconti toccanti, che arrivano al lettore, lo commuovono, lo fanno pensare. Ci fanno pensare: ai disperati, certo, ma anche alla speranza; e il trait d’union tra questi due aspetti si chiama don Mario, la cui figura, sebbene mite, caritatevole, francescana, si staglia prepotente in questo mondo, sì, mondo di lacrime, ché è questa la dicitura adatta, giusta.

E ha saputo fondere, Fabrizio Centofanti, in queste sue scritture ri-pescate dalla memoria, le sue due anime: quella di chi vive pensando al Vangelo come un’altra Storia di disperazione e speranza da mettere in pratica, e quella dell’umile testimone che trascrive e racconta. Sono venuti fuori, da questa doppia anima, questi racconti: che trasudano umanità e che ci insegnano. Ci insegnano che “dai diamanti non nasce niente, dal letame nascono i fior” non sono solo versi di una canzone di successo.
Perché la dignità “degli ultimi” sia per davvero. E non parole vuote, dell’usa e getta.